venerdì 9 dicembre 2016

La nausea


In realtà tutto questo filmato, tratto dalla trasmissione "Di martedì" del 22/11/2016, presenta molti spunti interessanti per chi desiderasse commentare a posteriori l'esito del referendum costituzionale.

Tuttavia quello che ora mi preme sottolineare - tanto per rigirare accuratamente il coltello nella ferita - è come, a partire dal minuto 21:51, venga inteso il concetto di "creazione del consenso" da parte del governatore di una delle più popolose regioni italiane, e parlo ovviamente di Vincenzo De Luca e della Campania.

Infatti, se il vicepresidente della Camera dei Deputati, Luigi Di Maio, si affruttica (si dice così, a casa di De Luca) le maniche e si reca, costantemente e di persona, in centinaia di piazze italiane a spiegare direttamente alla gente le posizioni politiche del M5S e le ragioni di merito alla base della scelta di votare NO alla proposta di riforma costituzionale, il governatore della Campania sceglie tutt'altra opzione: chiama a raccolta i suoi satrapi in una riunione riservata e li arringa a lungo invitandoli a recarsi presso le proprie clientele per far pervenire loro il messaggio di continuità della benevolenza dei piani alti del potere purché, ovviamente, si diano da fare nel proselitismo. E se occorre, perché no, fa brodo anche propinare ai clientes una bella frittura di paranza o un grazioso giretto in barca.

Discutere degli articoli oggetto della riforma? non se ne parla nemmeno.
Analizzare i pro e i contro delle soluzioni proposte? ma neanche per idea.
Verificare la reale portata delle modifiche? una mera perdita di tempo.

Tutto questo, naturalmente, in un paese normale verrebbe considerato un metodo borderline, pericolosamente oscillante fra la cosca mafiosa e la loggia massonica di gelliana memoria.

In Italia invece no.

In Italia infatti esiste una classe politica che non inorridisce e che non prende le distanze da questo scempio metodologico che mai potrebbe essere più distante dall'etica politica nel senso più elevato del termine.

No.

In Italia esiste una classe politica che considera il suddetto scempio della ragione come un fenomeno non più che folkloristico: secondo questa linea di lettura, chiaramente ed esplicitamente esemplificata al minuto 23:30 da Simona Bonafé, il governatore Vincenzo De Luca sarebbe in buona sostanza solo una sorta di pazziarello, un simpatico buontempone che sì, in effetti pensa e agisce in maniera non proprio oxfordiana, ma che in fin dei conti, suvvia, cosa vuoi che sia una fritturina di mare. Non siamo mica al voto di scambio, per due calamaretti.

No, certo che no. Non siamo al voto di scambio.

Siamo semplicemente alla resa della politica come confronto di argomentazioni, di passione, di differenti interpretazioni di una comune voglia di evolvere, di progredire, di cercare per domani qualcosa di meglio di ciò che è oggi.

Siamo alla nausea.

domenica 4 dicembre 2016

Attenti al loden.

L'Italia ha detto NO alla proposta di modifica della Costituzione. Si può quindi immaginare la soddisfazione e il sollievo di chi, come me, ha considerato questa riforma come un pericolo mortale per le fondamenta stesse della democrazia.

Non mi appartiene il piacere di osservare adesso, dalla metaforica sponda del fiume, il cadavere politico di Matteo Renzi, perché non ho mai considerato questo referendum come il grimaldello tramite il quale scardinare l'attuale esecutivo del quale penso comunque il peggio possibile; ma se con la netta sconfitta sancita dal voto popolare di oggi si chiude ufficialmente, per esplicita volontà dello stesso presidente del Consiglio, anche la parabola politica del governo Renzi, ne prendo semplicemente atto e guardo avanti, senza nutrire alcuna illusione che i veri problemi che stringono in un cappio la gola della nazione possano essere magicamente risolti nel giro di una notte, ma con una rinnovata fiducia nel futuro.

Una fiducia che si basa prima di tutto sul dato statistico più significativo, ovvero quello dell'affluenza alle urne: secondo i dati ufficiali del Viminale, si è recato a votare il 68,44% degli aventi diritto (dati relativi a 7993 su 7998 Comuni), una percentuale in nettissima controtendenza rispetto al preoccupante astensionismo dilagante nelle ultime precedenti tornate elettorali.
Il presidente del Consiglio in questi ultimi giorni sosteneva che la lotta si giocava sugli indecisi: ebbene, pare proprio che gli indecisi si siano mossi. E si sono mossi con decisione per dire NO.

E questo è un NO che vuol dire anche altro: questo NO vuol dire che gli italiani NON intendono chinare il capo di fronte all'establishment finanziario eurocratico che è il vero mittente di questo tentativo di stravolgimento della Costituzione; questo NO vuol dire che l'Italia è un boccone troppo indigesto per le manovre speculative del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Centrale Europea; questo NO vuol dire che l'Italia NON è la Grecia, e NON può essere trascinata al default senza portarsi con sé tutto il carrozzone europeo; questo NO vuol dire che, piaccia o non piaccia a Lorsignori, siamo nella stessa barca e se si affonda si affonda tutti insieme.

Peraltro, come fa notare anche il New York Times, commentando l'esito del referendum, dopo il duro colpo del Brexit esiste la concreta possibilità che di qui a poco, nel 2017, nei tre principali paesi fondatori dell'Unione Europea (Italia, Germania e Francia) si vada ad elezioni politiche nazionali in cui i locali partiti euroscettici si presentano con alte probabilità di vittoria o almeno con la possibilità di diventare l'ago della bilancia nei rapporti con l'Unione Europea. Perciò oggi per Lorsignori la cautela è d'obbligo.

Tuttavia il loden è sempre dietro l'angolo. Non ho purtroppo alcun motivo per considerare l'attuale inquilino del Colle più indipendente del suo pessimo predecessore, rispetto ai centri di potere che in passato hanno dettato l'agenda istituzionale italiana imponendo sotto il bluff speculativo dello spread il percorso di macelleria sociale cominciato tramite il governo di Mario Monti e di Elsa Fornero e mai interrotto neppure in seguito. Nondimeno, la lezione l'abbiamo ormai compresa e nessuno è più disposto a credere al mantra del "ce lo chiede l'Europa".

Testa alta, quindi. Abbiamo già dato.

lunedì 28 novembre 2016

Cosa c'è che non va nella riforma costituzionale Boschi-Verdini?

Potrei cavarmela facilmente con "tutto", ma sarebbe eccessivo. Andiamo quindi con ordine.

Il testo di riforma su cui mi sono basato è quello ufficiale reperibile e scaricabile sul sito della Camera dei Deputati, al seguente link:

http://documenti.camera.it/leg17/dossier/pdf/ac0500n.pdf

Prima di tutto, una considerazione di carattere generale: riguardo questa proposta di riforma, ci troviamo con tutta evidenza di fronte a un paese spaccato in due. Questo costituisce già di per sé un fallimento e un motivo per considerare negativamente in linea di principio la proposta di riforma al di là dei suoi contenuti, poiché un cambiamento così radicale della norma fondamentale che regola il patto sociale dovrebbe godere del consenso più ampio possibile. Non si stravolge la Costituzione a colpi di maggioranza.

Ciò premesso, passiamo subito al dettaglio dei singoli articoli oggetto di riforma, cominciando con le modifiche dell'architettura istituzionale. In altra occasione prenderò in esame anche gli altri aspetti della riforma.

Articoli 48, 55, 57, 59, 63, 64, 70: eliminazione del bicameralismo perfetto.
Qui i problemi sono molteplici, andiamo con ordine con le obiezioni.

Che il bicameralismo perfetto sia stato finora un ostacolo alla produzione legislativa, è affermazione totalmente falsa e smentita dai fatti. I numeri ci dicono l'esatto contrario, ovvero che nessuna fra le più importanti nazioni dell'Unione Europea ha avuto, dal dopoguerra a oggi, una produzione di leggi abbondante come l'Italia.
Cade quindi la ragione fondamentale per i sostenitori dell'abolizione del bicameralismo perfetto.

Curiosamente, resta per la Camera dei Deputati l'obbligo di trasmettere al Senato ogni disegno di legge approvato, perché i senatori possano eventualmente esaminarlo.
Come vedremo in seguito, peraltro, le competenze assegnate al nuovo Senato sono tali e tante da comportare prevedibilmente in molti casi la doppia lettura delle norme da approvare e in molti altri casi la nascita delle eccezioni e dei ricorsi alla Corte costituzionale in materia di competenze e le attribuzioni per ogni singolo provvedimento.
Tutto questo non corrisponde in alcun modo al concetto di semplificazione propagandato dal governo.
Infine, sono demandate in via esclusiva ai due presidenti delle Camere una serie di valutazioni riguardo le questioni di competenza: questo comporta il pericolo di uno stallo non superabile qualora i due presidenti siano di parere opposto, non essendovi alcuna disposizione che stabilisca una gerarchia fra di essi.

La riduzione dei costi della politica è irrilevante, poiché il Senato non sparisce, il che vuol dire che restano immutati i costi della struttura e del personale ma vengono eliminati solo gli stipendi dei senatori "a tempo pieno", sostituiti comunque dai rimborsi spesa dei senatori "pendolari". Perciò, risparmio poco o niente.

La nomina dei senatori viene sottratta alla volontà popolare poiché alle elezioni parlamentari il cittadino riceverà soltanto la scheda per eleggere la Camera dei Deputati, e questo in un sistema democratico è inaccettabile poiché contrasta con  il significato fondamentale del concetto stesso di democrazia.
Nessun valore ha, nella fattispecie, l'osservazione che in fin dei conti i sindaci e i consiglieri regionali sono di nomina popolare, perché alle elezioni amministrative il cittadino non è comunque in grado né di scegliere direttamente chi mandare al Senato né di sapere, prima di esercitare il voto, chi fra i sindaci e i consiglieri eletti saranno coloro che andranno a fare anche i senatori.

Fra le funzioni del nuovo Senato rientra specificamente la competenza sulle questioni relative ai rapporti fra lo Stato e le istituzioni comunitarie europee, una funzione di fondamentale importanza anche in prospettiva, per tutti i cittadini. A maggior ragione, quindi, è inaccettabile che il popolo non sia chiamato direttamente ad eleggere coloro che dovranno trattare questa delicatissima materia. 

La composizione del nuovo Senato non viene chiarita in maniera esaustiva, ma i meccanismi elettorali per l'attribuzione dei seggi restano da stabilirsi con legge ordinaria da definire. Questo non rende possibile una valutazione completa delle relative modifiche costituzionali: se non sono a conoscenza della legge elettorale non posso nemmeno farmi un'idea di come sarà il nuovo Senato, quindi mi manca un essenziale elemento di valutazione.

Per quanto riguarda la designazione a senatore, viene inoltre introdotto dall'art. 63 un ulteriore filtro regolamentare interno, quindi non soggetto alla potestà popolare, non solo per la nomina del presidente dell'assemblea (che c'era già prima) ma anche per tutti i componenti del senato.

Il popolo non può eleggere direttamente i senatori, però rimangono, seppur non più a vita, i senatori di nomina presidenziale: una assurdità. Sarebbe stato più logico eliminarli definitivamente, una buona volta, visto che non se ne sente alcuna necessità, o al limite, conferire ai senatori di nomina presidenziale solo la carica simbolica senza diritto di voto.

La composizione politica del Senato, a differenza di quella della Camera, non resta costante per tutta la legislatura ma è soggetta a possibili variazioni anche consistenti in funzione della eventuale cessazione del mandato, per i motivi più diversi, dei sindaci e dei consiglieri regionali che lo compongono. Anche questo è assurdo ed è del tutto contrario al principio di stabilità politica in nome del quale il governo sostiene di aver progettato tutta la riforma costituzionale.

Viene introdotto l'obbligo, per deputati e senatori, di partecipare alle sedute delle rispettive Camere e ai lavori delle rispettive Commissioni. Questo comporterà per i membri del Senato la necessità di organizzare in funzione dei lavori del Senato, su base subalterna, le attività per cui i cittadini li hanno eletti alle istituzioni locali. E' evidente, inevitabile e prevedibile che ciò potrà determinare difficoltà nei lavori alle assemblee regionali e ai Comuni.

Valutazione conclusiva: le modifiche dell'architettura istituzionale presentate nella proposta di riforma oggetto del referendum sono basate su presupposti sbagliati, sono inefficaci nella sostanza, sono progettate in maniera contraddittoria e sono totalmente contrarie all'essenza di un sistema democratico.
Non si individua, peraltro, alcun reale vantaggio funzionale rispetto al sistema attualmente in vigore.

Quindi NO, GRAZIE!

domenica 7 febbraio 2016

Abbiamo una religione di Stato o un senatore di troppo?



Queste immagini, prese in occasione del Family Day tenutosi il 30 gennaio, sono emblematiche ma sono passate sostanzialmente sotto silenzio pur essendo pregne di contenuti eticamente e giuridicamente devastanti.
Il messaggio che da esse trapela non è diverso da quello veicolato in altre occasioni precedenti in cui la battaglia per i diritti civili ha visto mettersi di traverso la morale cattolica, ma al di là del merito non si può non sottolineare che queste posizioni di opposizione di principio rappresentano in maniera evidente il problema sostanziale, insoluto e virtualmente insolubile, del rapporto fra istituzioni e religione nelle moderne democrazie laiche.

Nelle nazioni in cui esiste una religione ufficiale di Stato, cioè quelle che classifichiamo come "confessionali", l'atteggiamento delle istituzioni nei confronti degli atei o dei seguaci di altri culti spazia, a seconda dei casi, dall'assoluto divieto di pratica sotto qualsiasi forma individuale o associativa a forme di tolleranza più o meno dichiarate: persino nel sedicente "Stato islamico" i cristiani sono in qualche modo tollerati, anche se pesantemente discriminati, a patto che paghino una apposita tassa.
Tuttavia, negli Stati confessionali una caratteristica di fondo è la costante e imprescindibile applicazione dei dettami del culto ufficiale anche nella produzione legislativa: Stato e clero possono anche non coincidere, ma la dottrina religiosa resta la principale - quando non unica - fonte normativa e ogni legge si uniforma nei suoi contenuti ai principi e ai dogmi del culto ufficiale.

Parimenti, nelle nazioni in cui vige il cosiddetto "ateismo di Stato", nessun culto religioso è formalmente riconosciuto e di conseguenza nei principi del diritto non si trova alcuna corrispondenza diretta o indiretta con una qualsivoglia dottrina religiosa, e di conseguenza tutti i culti eventualmente consentiti come pratica individuale sono comunque esclusi a priori da ogni contributo al processo normativo. Poi si potrebbe certamente osservare che in fin dei conti anche l'ateismo è di per sé una forma di religione poiché l'esistenza della divinità è scientificamente indimostrabile esattamente come lo è la sua negazione, ma questo è altro discorso.
Quello che è importante sottolineare è che nello Stato ateo la principale fonte normativa non è rappresentata da testi sacri come nello Stato confessionale, ma da altri presupposti etici generalmente identificabili nei principi costitutivi di una determinata ideologia.

Di contro, si definiscono "laiche" le nazioni in cui non esiste alcuna religione ufficiale di Stato e in cui ogni culto riconosciuto dallo Stato può essere liberamente praticato da ogni cittadino in forma individuale o associativa.
Possiamo quindi considerare lo Stato laico come una entità diversa sia dallo Stato confessionale sia dallo Stato ateo.
Rispetto allo Stato confessionale, infatti, la diversità consiste nell'indipendenza assoluta del sistema normativo dai precetti e dai dettami di qualsiasi culto, mentre rispetto allo Stato ateo la diversità consiste nella totale assenza di una presa di posizione pro o contro, rispetto alla questione dell'esistenza della divinità.
Lo Stato laico, per sua definizione, ha come elemento costituente della sua etica un patto sociale fondato su una serie di principi generalmente enunciati in un documento detto "Costituzione", che infatti rappresenta la fonte normativa primaria.
La conseguenza diretta di questi presupposti, per quanto riguarda il rapporto fra il cittadino e le religioni, consiste nell'affermazione che ciascuno può liberamente decidere se e quale culto praticare, a condizione che ognuno rispetti la legge, non potendosi quindi configurare alcuna scriminante o attenuante basata sul richiamo di qualsivoglia precetto di fede.

In pratica, nello Stato laico non ha alcuna rilevanza se un determinato atto sia "giusto" oppure sia "sbagliato", ma l'unica cosa eticamente e giuridicamente rilevante è se esso sia "lecito" oppure "illecito".
Appare quindi totalmente privo di senso esporre uno striscione che contenga il messaggio davanti al quale posa così orgogliosamente il gruppo di suore. Ora, se possiamo certamente astenerci dal provare stupore quando a fare da supporto a un messaggio così idiota sono persone che hanno dedicato la loro stessa vita al culto che professano, altrettanto non si può dire quando al loro posto posano, altrettanto orgogliosamente, un senatore della Repubblica, il quale dovrebbe conoscere, riconoscere e ricordare i principi sui quali ha giurato.

Prendiamo atto, invece, che l'Ottimo Giovanardi non conosce, oppure non riconosce, oppure non ricorda i suddetti principi.
Sarebbe quindi decisamente opportuno che questo discutibile personaggio liberi le istituzioni dalla sua ingombrante presenza.