Dal momento della scomparsa di quella lucidissima figura di animale politico che fu Camillo Benso, conte di Cavour, dobbiamo purtroppo ammettere che l'aggettivo "surreale" è stato spesso l'unico vocabolo utilizzabile per descrivere adeguatamente le vicende politiche nostrane.
Anche oggi, pescando più o meno a caso nel mucchio, si potrebbe facilmente citare l'esempio di quel noto e decrepito piduista corruttore e pregiudicato che, lungi dal venir rinchiuso seduta stante in gattabuia dopo essere stato condannato a 4 anni di reclusione con sentenza penale definitiva, resta ancora incredibilmente a piede libero, tiene in ostaggio una nazione intera e si permette addirittura di proporci a reti unificate farneticanti e patetici videomessaggi degni dell'attenzione dello psichiatra piuttosto che dell'opinione pubblica.
Per non parlare di come persino il massimo rappresentante dell'unità nazionale tradisca l'obbligo dell'imparzialità e dell'equidistanza rispetto ai poteri dello Stato e si permetta di parlare smaccatamente a favore di una parte ben precisa scegliendosi con il lanternino proprio quella che nella storia degli ultimi 30 anni ha dato la peggior prova di sé, ovvero la casta politica, e scagliandosi contro un'altra casta, quella della magistratura, che immune da gravi colpe non è ma che fra tali colpe non può certamente annoverare né la responsabilità primaria dello sfascio di una nazione né la persecuzione sistematica nei confronti della politica e dei suoi squallidi attori.
Ma lasciamo perdere le miserie della cronaca e rimettiamo indietro l'orologio della storia.
Il 20 settembre 1870 le truppe italiane entrano in Roma sancendo de facto la fine del potere temporale del Papa e determinando la dissoluzione dello Stato Pontificio. Di lì a poco, Roma diventerà la capitale d'Italia tornando ad assumere, dopo quasi due millenni, un ruolo di assoluta centralità nella vita politica italiana.
Questo dicono gli almanacchi.
Ciò che invece gli almanacchi non riportano è che a partire da quel giorno la classe dirigente del neocostituito Regno d'Italia si rese più volte responsabile di vere e proprie follie politiche dimostrando di non avere nei suoi ranghi uomini degni di esser definiti statisti nell'accezione eticamente più onorevole del termine. Una lettura imparziale della storia d'Italia di fine secolo ci pone dinanzi un panorama desolante, figlio del velleitarismo e dell'impreparazione culturale e politica già abbondantemente dimostrata nella III guerra d'indipendenza e in particolare nei tragici fatti di Lissa e di Custoza. Una guerra, quella, che per certi versi ha molto in comune nella sua genesi con i retroscena che nel 1940 portarono l'Italia a scendere in armi al fianco della Germania.
Ma di questo mi riprometto di parlare un'altra volta: ora vorrei porre l'attenzione su un episodio, anzi su un non-episodio, visto che il tutto si concluse fortunatamente con un nulla di fatto, che coinvolse gli ambienti politici e diplomatici italiani e non solo, negli anni che vanno dal 1889 al 1896.
Era quella un'epoca in cui persisteva ancora su vasta scala il fenomeno dell'emigrazione da diverse nazioni europee - Italia e Germania erano entrambe considerevolmente coinvolte - verso entrambi i continenti americani. Ma se i flussi migratori verso il nordamerica trovavano, una volta giunti a destinazione, una struttura sociale, economica e istituzionale già sufficientemente consolidata, lo stesso non si può certamente dire per chi aveva scelto come patria adottiva l'America australe: in quelle nazioni, nella seconda metà del XIX sec. le tradizionali economie rurali basate su schiavismo, latifondismo e protezionismo non avevano ancora terminato il processo di trasformazione in economie di mercato e di libero scambio di merci e di capitali. Anche il Brasile, pur avendo raggiunto l'indipendenza politica già nel 1821 e aver abolito - ancorché solo formalmente - la schiavitù nel 1840, continuò a mancare totalmente di un assetto industriale degno di tal nome e restò de facto per decenni nelle mani di un'aristocrazia agricola che guardava con estrema diffidenza se non con aperta ostilità a qualsiasi tentativo di modernizzazione vedendo in ciò un concreto pericolo per le proprie posizioni di predominio sociale e politico. Un'ostilità non solo nei confronti della cultura progressista e delle idee nate dalla Rivoluzione francese, ma anche verso il liberismo economico di matrice britannica.
Ma il cammino della storia è inesorabile, e quando un sistema dimostra di non essere più adeguato alla bisogna è inevitabile che esso venga prima eroso e poi sostituito da un altro più efficiente. Tuttavia non sempre i cambiamenti si sviluppano con rapidità: negli Stati Uniti, per esempio, il catalizzatore di questa trasformazione strutturale della nazione fu la Guerra Civile, ma in altri casi tale catalizzatore non ci fu e si dovette pagare alla pazienza un prezzo piuttosto alto. Questo fu proprio il caso del Brasile, che durante tutto il periodo monarchico (dal 1822 in poi) si trovò a fare i conti con soggetti virtualmente incompatibili fra di loro: l'aristocrazia terriera ben determinata a non mollare le redini del potere, gli ex schiavi ridotti comunque a vivere in modo miserando la loro nuova condizione di libertà, e - the last but not the least - gli immigrati provenienti dall'Europa, i quali, rifuggendo le durissime condizioni di vita nelle campagne, affluirono in massa verso le città creando i più classici presupposti della guerra fra poveri e una miscela di proletariato urbano potenzialmente esplosiva.
A tutto questo le istituzioni non potevano porre argine o rimedio alcuno, tant'è che gli immigrati, soprattutto quelli che erano riusciti a inserirsi nei settori locali del commercio e della piccola industria e che quindi guardavano con favore i principi del liberismo economico, vedendo messi ripetutamente in pericolo i propri interessi e a volte anche la propria stessa incolumità, rivolsero ripetutamente appelli alle loro nazioni di origine perché intervenissero con la forza della diplomazia o se necessario anche con quella delle armi.
Questi appelli non potevano essere del tutto ignorati: l'entità dei flussi migratori verso il Brasile, sia di provenienza europea che nordamericana, aveva raggiunto livelli considerevoli (solo nell'ultimo decennio del XIX secolo, si stima più di un milione di ingressi nel paese), comportando di conseguenza anche ingenti trasferimenti di capitali e investimenti di medio-lungo periodo. E sappiamo bene che sono proprio gli interessi economici a fare da catalizzatore primario dell'azione politica.
In questa situazione di grave instabilità e di sviluppo disarmonico, accentuato peraltro da un pesantissimo debito estero in costante aumento, aumento che il governo centrale brasiliano non era in grado di contrastare salvo che con pericolose manovre deflattive che ebbero gravi ripercussioni sullo sviluppo economico, si giunge al 1889, anno in cui avvenne la rimozione manu militari dell'imperatore Pietro II da parte dell'ala più conservatrice dell'oligarchia terriera, la quale, se possibile, accentuò ancora la crisi strutturale della nazione cambiandone l'assetto in senso pesantemente federalista, cosa che se dava ai potentati locali la possibilità di costruire nelle rispettive province aree di influenza virtualmente sottratte al controllo del governo centrale, comportava la sostanziale impossibilità, da parte della politica, di affrontare in maniera univoca le gravi questioni di cui abbiamo fatto cenno.
Le ripercussioni di questo stato di cose sulla comunità di immigrati italiani furono pesanti: le tensioni xenofobe sfociarono frequentemente in disordini e violenze, tant'è che le richieste di protezione inviate alla patria d'origine arrivarono a essere seriamente prese in considerazione da Roma e gli stessi rapporti diplomatici fra Italia e Brasile subirono un brusco raffreddamento.
Fu dunque proprio in tale contesto che si arrivò a prendere in considerazione qualcosa di più delle classiche dimostrazioni di forza già attuate in precedenza con l'invio di qualche vascello da guerra lungo le coste brasiliane. Non essendo l'Italia in condizione di poter trascurare a cuor leggero il sostanzioso contributo dato alla nostra bilancia commerciale dai trasferimenti di denaro verso il nostro paese da parte degli immigrati, il capo del governo, che allora era Francesco Crispi, richiese esplicitamente alla Regia Marina di predisporre entro il 1890 una Stazione Navale Permanente dell'America Meridionale, inviando una piccola squadra - quel poco che ci potevamo permettere di distogliere dall'inquieto teatro mediterraneo - a far visita alle comunità italiane in Cile, Argentina e Brasile e a mostrar la nostra bandiera (oltre che i nostri cannoni), non diversamente da quanto fecero altre nazioni. E quando in Brasile (1891) e poi in Argentina (1892) scoppiò una vera e propria guerra civile, le squadre navali europee e statunitensi presenti in quelle acque convennero di riunirsi affidando all'ammiraglio italiano Giovanbattista Magnaghi il comando congiunto.
Tuttavia, fra il 1893 e il 1894, pur permanendo estremamente grave e caotica la situazione di guerra civile in Brasile, tutte le navi italiane vennero inspiegabilmente richiamate in patria a eccezione, inizialmente, dell'ariete torpediniere DOGALI

lasciando così il comando della forza navale congiunta all'ammiraglio statunitense Andrew Benham. Ma nel 1894 anche il DOGALI rientrò in Italia, lasciando il Brasile pesantemente scosso da una terribile epidemia di febbre gialla e da violentissimi tumulti di cui continuarono a fare le spese anche gli immigrati, italiani e di altre nazionalità. Solo nel 1895 la bandiera italiana si rivide sulle coste brasiliane, issata prima sull'albero dell'ariete LIGURIA e poi del LOMBARDIA; purtroppo anche questa fu una presenza effimera, che cessò già nel maggio del 1896 nonostante che la situazione dei nostri connazionali in Brasile non fosse affatto migliorata. A onta dei continui negoziati portati avanti dalla nostra diplomazia, le violenze xenofobe e gli eccidi continuavano senza sosta.
E' in questo quadro totalmente fuori controllo che maturò la più assurda e irrazionale delle idee: il progetto di mandare verso il Brasile una consistente squadra navale con il compito di attuare una vera e propria azione di forza costringendo il governo brasiliano a piegarsi alle richieste di Roma. Una scelta strategicamente del tutto inattuabile e politicamente non indispensabile. Cominciamo ad analizzare i punti focali della questione:
1. mancava un accordo preliminare e un'unità d'intenti con le altre potenze interessate a tutelare i propri interessi e i propri cittadini immigrati in Brasile;
2. mancava anche un'intesa preventiva con le altre nazioni sudamericane (Argentina e Uruguay in primis), intesa che avrebbe dovuto garantirci se non il favore almeno la non ostilità alla nostra azione militare;
3. mancava la segretezza necessaria per poter sferrare il primo colpo cogliendo l'avversario impreparato: infatti il re Umberto I diede disposizioni affinché venisse data la massima pubblicità alla decisione di creare
la "Squadra dell'Atlantico", nella malcelata speranza che il solo effetto di questa notizia portasse il Brasile a più miti consigli. Cosa che non avvenne affatto, nonostante che la stampa brasiliana avesse dato molta evidenza alla minaccia e che l'opinione pubblica locale ne fosse rimasta molto colpita;
4. mancava la chiarezza sugli obiettivi da raggiungere: se lo scopo primario della missione doveva essere il ripristino della sicurezza per i nostri connazionali in Brasile, ciò era virtualmente irrealizzabile essendo impossibile raggiungere con contingenti militari di terra (cosa comunque mai messa in preventivo) ogni più sperduta zona del Brasile in cui essi si trovavano dispersi a migliaia;
5. mancava, sul posto, il necessario supporto logistico e infrastrutturale per un'operazione navale complessa e di lunga durata da svolgersi a più di 5000 miglia dalla patria;
6. e infine... mancavano i mezzi necessari per conquistare un reale dominio sul mare dinanzi alle coste brasiliane: la Regia Marina era pesantemente impegnata nel teatro del Mar Rosso, e nel Mediterraneo non si erano ancora affatto abbassata la tensione con la Francia, quindi era virtualmente impossibile poter costituire una flotta di dimensioni e capacità adeguate per portare a termine la missione in Brasile.
E tralascio una ulteriore serie di considerazioni più specificamente tattiche e operative, che non troverebbero in questa sede utile trattazione.
Tutto questo, comunque, su sollecitazione del ministro della Marina Benedetto Brin, una delle poche menti pensanti di cui disponevamo all'epoca, venne sollecitamente portato a conoscenza del governo e del Re, e alla fine della "spedizione punitiva" non se ne fece nulla. Per fortuna.
Ho comunque il sospetto che il conte di Cavour, in quel periodo, ebbe a rivoltarsi nella tomba più di una volta.