domenica 29 settembre 2013

L'evoluzione del quadro politico dal dopoguerra a oggi.

Come capita regolarmente ogni volta che si verifica una crisi politica, tutti gli attori del teatrino della cosiddetta "seconda repubblica" cominciano a strepitare e ad accollarsi l'un l'altro le più diverse responsabilità, in una rituale quanto squallida rincorsa a chi urla più forte, più spesso e nei più diversi luoghi mediatici.

Quando penso agli anni "eroici" dei vari Fanfani, Longo, Almirante, De Mita, Zanone e via discorrendo, mi vengono in mente tribune politiche piene di occhialuti ottuagenari in doppiopetto che attendevano educatamente il proprio turno per parlare e, arrivato il loro momento, si lanciavano invariabilmente in prolissi artifizi retorici infarciti di improbabili espressioni del tipo "convergenze parallele", "riforme di struttura", "piattaforma programmatica" e altre supercazzole di fattura più o meno pregiata a seconda dell'abilità retorica dell'oratore e dell'arguzia dello stesore del discorso.
In realtà anche quello era solo un teatrino del tutto privo di contenuti: si andava in tv semplicemente per dimostrare che, essendo in democrazia (cristiana, s'intende) vi era libertà di parola e di espressione, fatto, questo, che per l'uomo della strada era già parecchio rassicurante e gratificante rispetto a ciò che non molti anni prima milioni dei telespettatori di allora avevano sperimentato con la censura e il totalitarismo della dittatura fascista.
Insomma, Fanfani & company andavano a svolgere il loro compitino di fronte a un pubblico che, in verità, aveva spesso un sacro terrore delle tribune politiche, le quali nelle famigliole in ascolto provocavano per lo più subitanee crisi di sonno o addirittura anomali fenomeni di tipo letargico. Poi, però, a riflettori spenti, nelle segrete stanze, ci si riuniva, si consultava il manuale Cencelli, si discuteva, si analizzava, si poneva rimedio a qualche intoppo e si usciva invariabilmente dalla crisi con un bel rimpasto in cui qualche ministero cambiava casacca, qualche sottosegretario veniva spostato da una poltrona a un'altra e non di rado il presidente del Consiglio succedeva a sé stesso rifacendo un "nuovo" governo in cui, cambiando l'ordine dei fattori, il risultato politico complessivo rimaneva esattamente lo stesso.

E si tirava avanti in un modo o nell'altro, tutti insieme a braccetto, destra, sinistra, centro, centro-destra, centro-sinistra, centro-sinistra-centro, centro-centro-sinistra, ecc. ecc.

Ma con l'avvento della multimedialità e della multicanalità informativa, il cui inizio in Italia deve essere fatto coincidere con l'apertura ai privati delle frequenze televisive, le cose cominciarono a cambiare: la lottizzazione della tv di Stato in favore di DC, PSI e PCI e l'ingresso in campo di soggetti privati nel business della carta stampata e del piccolo schermo diedero la stura a un processo di ristrutturazione del quadro politico in senso decisamente meno frammentario: con la concentrazione del controllo dei media pubblici e privati nelle mani di pochi soggetti istituzionali e imprenditoriali, concentrazione che nessuno si sognò neanche lontanamente di regolamentare dal punto di vista normativo, si posero anche le basi per una agglomerazione politica che ebbe il suo definitivo catalizzatore nell'insieme di azioni giudiziarie, definite come "Mani Pulite", che portò a una drastica contrazione numerica dei soggetti politici, i quali vennero man mano sostituiti dalle nuove formazioni scaturite dall'avvento del bipolarismo. O di qua o di là. O così o pomì.

Fu un cambiamento solo di facciata, naturalmente: i rapporti di forza fra i "poteri forti" non ne vennero scalfiti, e assistemmo a una straordinaria operazione di riciclaggio su vasta scala in cui personaggi di seconda e terza schiera, che precedentemente erano semplici fattorini o portaborse dei potenti di turno, con la decadenza di questi ebbero l'occasione di prenderne il posto e di poter finalmente addentare la loro fetta di torta invece di accontentarsi delle briciole. E la fame arretrata era così tanta che costoro non si fermarono di fronte a nulla pur di mantenersi avvinghiati alla poltrona conquistata dopo una durissima gavetta, una gavetta che peraltro era solo la inevitabile conseguenza della loro inettitudine politica rispetto ai personaggi dominanti della prima repubblica.
Questo però fu per l'Italia repubblicana l'inizio della crisi più drammatica della sua storia: l'inettitudine, l'opportunismo e la disonestà della nuova classe politica non potevano certo essere i presupposti necessari per ben guidare la nazione nella tempesta economica globale e negli sconvolgimenti geopolitici di questo inizio di terzo millennio, quando sarebbero stati necessari personaggi di ben altro spessore: ci ritroviamo quindi oggi con una nazione umiliata, una economia depressa, una credibilità internazionale scesa ai minimi livelli, e un panorama politico in cui da una parte vi è una accozzaglia di ripugnanti cialtroni da un tanto al chilo letteralmente al soldo di un delinquente pregiudicato, dall'altra parte vi è una marmaglia di inetti opportunisti la cui intelligenza politica è mediamente pari a quella di un lemure del Madagascar, mentre alla periferia di questa tragicomica cittadella sopravvivono nella loro nicchia elettorale veri e propri dinosauri che si ammantano di improbabili e surreali aspirazioni federaliste o di altrettanto imbarazzanti revisionismi catto-comunisti.

L'unico soggetto politico presumibilmente genuino, effettivamente rappresentativo di una consistente fetta di società e figlio di questi tempi, è una formazione che purtroppo è ancora troppo acerba per poter svolgere un ruolo realmente propositivo nell'attuale scenario politico. E non sappiamo se all'Italia resta il tempo sufficiente per attendere la sua maturazione.

Così come siamo messi, quindi, siamo allo sbando più totale. Qualcuno ha un'aspirina?

sabato 28 settembre 2013

Il M5S non deve crescere, deve diventare adulto.

Finora si è sostanzialmente scherzato, dalle parti di Grillo e di Casaleggio.

Nonostante il boicottaggio mediatico e la strategia della disinformazione da parte dei pennivendoli al soldo della gang PD + PdL, è comunque vero che i deputati e i senatori del M5S si sono rimboccati le maniche e si sono dati molto da fare all'interno del Parlamento e delle Commissioni. Un attivismo che in teoria non dovrebbe nemmeno far loro onore più di tanto, perché in fin dei conti in una democrazia rappresentativa "normale" tutto ciò dovrebbe rappresentare la regola, non l'eccezione: i parlamentari vengono pagati (e bene) proprio per far questo e non per limitarsi a pavoneggiarsi e a sciorinare supercazzole davanti a microfoni e telecamere nei salotti buoni della tv. Ma poiché sappiamo bene che l'Italia non è più, di fatto, una democrazia rappresentativa, anzi, per meglio dire, non è proprio più una democrazia, non possiamo esimerci dal rendere omaggio alla pattuglia a 5 stelle, unica embrionale forma di reale rappresentatività in un Parlamento di nominati e non di eletti.

Tuttavia è evidente che questo non basta più: il M5S ha ora il preciso dovere di salire un altro gradino sulla scala della sua evoluzione politica, e può farlo solo comprendendo che non può rimanere passivamente al traino degli eventi come ha fatto finora, ma deve passare a dimostrare una reale capacità propositiva. Il tempo della protesta e dell'opposizione non è certamente ancora finito, ma ora, ogni volta che da parte del movimento viene avanzata una critica all'attuale sfascio istituzionale e politico, bisogna contestualmente cominciare a portare all'attenzione dei cittadini anche delle proposte alternative chiare e concrete.

C'è solo l'imbarazzo della scelta. Tiro a caso.

Sostenete che il presidente della Repubblica è inadeguato, ha la responsabilità dell'attuale impasse politica e si deve dimettere? benissimo, ma allora DICHIARATE chi è il VOSTRO candidato alla successione di Napolitano. La gente ha diritto di sapere.

Sostenete che il porcellum non va bene come legge elettorale? benissimo, ma allora PRESENTATE ai cittadini una VOSTRA proposta di legge e spiegatela. La gente ha diritto di sapere.

Sostenete che l'attuale maggioranza non ha più futuro e che il governo Letta deve andare a casa? benissimo, ma allora PROPONETE una VOSTRA squadra di governo e una piattaforma programmatica ben precisa. Il programma presentato alle scorse elezioni è troppo generico, non è sufficiente.

E così via, su tutti gli argomenti di maggiore importanza e urgenza.

Cari signori del M5S, se non riuscirete a dimostrare una reale propositività, vi ridurrete in breve a un mero fenomeno da baraccone, e lo sa il cielo se di roba del genere ne abbiamo già più che a sufficienza, in questa nostra disastrata nazione.
Fare politica non è mai una cosa semplice, il politico non ha il compito di rappresentare (o di creare...) problemi, il politico ha il compito di proporre soluzioni.

Vamos. (cit.)

Da Porta Pia a Rio de Janeiro

Dal momento della scomparsa di quella lucidissima figura di animale politico che fu Camillo Benso, conte di Cavour, dobbiamo purtroppo ammettere che l'aggettivo "surreale" è stato spesso l'unico vocabolo utilizzabile per descrivere adeguatamente le vicende politiche nostrane.
Anche oggi, pescando più o meno a caso nel mucchio, si potrebbe facilmente citare l'esempio di quel noto e decrepito piduista corruttore e pregiudicato che, lungi dal venir rinchiuso seduta stante in gattabuia dopo essere stato condannato a 4 anni di reclusione con sentenza penale definitiva, resta ancora incredibilmente a piede libero, tiene in ostaggio una nazione intera e si permette addirittura di proporci a reti unificate farneticanti e patetici videomessaggi degni dell'attenzione dello psichiatra piuttosto che dell'opinione pubblica.
Per non parlare di come persino il massimo rappresentante dell'unità nazionale tradisca l'obbligo dell'imparzialità e dell'equidistanza rispetto ai poteri dello Stato e si permetta di parlare smaccatamente a favore di una parte ben precisa scegliendosi con il lanternino proprio quella che nella storia degli ultimi 30 anni  ha dato la peggior prova di sé, ovvero la casta politica, e scagliandosi contro un'altra casta, quella della magistratura, che immune da gravi colpe non è ma che fra tali colpe non può certamente annoverare né la responsabilità primaria dello sfascio di una nazione né la persecuzione sistematica nei confronti della politica e dei suoi squallidi attori.

Ma lasciamo perdere le miserie della cronaca e rimettiamo indietro l'orologio della storia.


Il 20 settembre 1870 le truppe italiane entrano in Roma sancendo de facto la fine del potere temporale del Papa e determinando la dissoluzione dello Stato Pontificio. Di lì a poco, Roma diventerà la capitale d'Italia tornando ad assumere, dopo quasi due millenni, un ruolo di assoluta centralità nella vita politica italiana.

Questo dicono gli almanacchi.

Ciò che invece gli almanacchi non riportano è che a partire da quel giorno la classe dirigente del neocostituito Regno d'Italia si rese più volte responsabile di vere e proprie follie politiche dimostrando di non avere nei suoi ranghi uomini degni di esser definiti statisti nell'accezione eticamente più onorevole del termine. Una lettura imparziale della storia d'Italia di fine secolo ci pone dinanzi un panorama desolante, figlio del velleitarismo e dell'impreparazione culturale e politica già abbondantemente dimostrata nella III guerra d'indipendenza e in particolare nei tragici fatti di Lissa e di Custoza. Una guerra, quella, che per certi versi ha molto in comune nella sua genesi con i retroscena che nel 1940 portarono l'Italia a scendere in armi al fianco della Germania.

Ma di questo mi riprometto di parlare un'altra volta: ora vorrei porre l'attenzione su un episodio, anzi su un non-episodio, visto che il tutto si concluse fortunatamente con un nulla di fatto, che coinvolse gli ambienti politici e diplomatici italiani e non solo, negli anni che vanno dal 1889 al 1896.
Era quella un'epoca in cui persisteva ancora su vasta scala il fenomeno dell'emigrazione da diverse nazioni europee - Italia e Germania erano entrambe considerevolmente coinvolte - verso entrambi i continenti americani. Ma se i flussi migratori verso il nordamerica trovavano, una volta giunti a destinazione, una struttura sociale, economica e istituzionale già sufficientemente consolidata, lo stesso non si può certamente dire per chi aveva scelto come patria adottiva l'America australe: in quelle nazioni, nella seconda metà del XIX sec. le tradizionali economie rurali basate su schiavismo, latifondismo e protezionismo non avevano ancora terminato il processo di trasformazione in economie di mercato e di libero scambio di merci e di capitali. Anche il Brasile, pur avendo raggiunto l'indipendenza politica già nel 1821 e aver abolito - ancorché solo formalmente - la schiavitù nel 1840, continuò a mancare totalmente di un assetto industriale degno di tal nome e restò de facto per decenni nelle mani di un'aristocrazia agricola che guardava con estrema diffidenza se non con aperta ostilità a qualsiasi tentativo di modernizzazione vedendo in ciò un concreto pericolo per le proprie posizioni di predominio sociale e politico. Un'ostilità non solo nei confronti della cultura progressista e delle idee nate dalla Rivoluzione francese, ma anche verso il liberismo economico di matrice britannica.

Ma il cammino della storia è inesorabile, e quando un sistema dimostra di non essere più adeguato alla bisogna è inevitabile che esso venga prima eroso e poi sostituito da un altro più efficiente. Tuttavia non sempre i cambiamenti si sviluppano con rapidità: negli Stati Uniti, per esempio, il catalizzatore di questa trasformazione strutturale della nazione fu la Guerra Civile, ma in altri casi tale catalizzatore non ci fu e si dovette pagare alla pazienza un prezzo piuttosto alto. Questo fu proprio il caso del Brasile, che durante tutto il periodo monarchico (dal 1822 in poi) si trovò a fare i conti con soggetti virtualmente incompatibili fra di loro: l'aristocrazia terriera ben determinata a non mollare le redini del potere, gli ex schiavi ridotti comunque a vivere in modo miserando la loro nuova condizione di libertà, e - the last but not the least - gli immigrati provenienti dall'Europa, i quali, rifuggendo le durissime condizioni di vita nelle campagne, affluirono in massa verso le città creando i più classici presupposti della guerra fra poveri e una miscela di proletariato urbano potenzialmente esplosiva.
A tutto questo le istituzioni non potevano porre argine o rimedio alcuno, tant'è che gli immigrati, soprattutto quelli che erano riusciti a inserirsi nei settori locali del commercio e della piccola industria e che quindi guardavano con favore i principi del liberismo economico, vedendo messi ripetutamente in pericolo i propri interessi e a volte anche la propria stessa incolumità, rivolsero ripetutamente appelli alle loro nazioni di origine perché intervenissero con la forza della diplomazia o se necessario anche con quella delle armi.
Questi appelli non potevano essere del tutto ignorati: l'entità dei flussi migratori verso il Brasile, sia di provenienza europea che nordamericana, aveva raggiunto livelli considerevoli (solo nell'ultimo decennio del XIX secolo, si stima più di un milione di ingressi nel paese), comportando di conseguenza anche ingenti trasferimenti di capitali e investimenti di medio-lungo periodo. E sappiamo bene che sono proprio gli interessi economici a fare da catalizzatore primario dell'azione politica.

In questa situazione di grave instabilità e di sviluppo disarmonico, accentuato peraltro da un pesantissimo debito estero in costante aumento, aumento che il governo centrale brasiliano non era in grado di contrastare salvo che con pericolose manovre deflattive che ebbero gravi ripercussioni sullo sviluppo economico, si giunge al 1889, anno in cui avvenne la rimozione manu militari dell'imperatore Pietro II da parte dell'ala più conservatrice dell'oligarchia terriera, la quale, se possibile, accentuò ancora la crisi strutturale della nazione cambiandone l'assetto in senso pesantemente federalista, cosa che se dava ai potentati locali la possibilità di costruire nelle rispettive province aree di influenza virtualmente sottratte al controllo del governo centrale, comportava la sostanziale impossibilità, da parte della politica, di affrontare in maniera univoca le gravi questioni di cui abbiamo fatto cenno.

Le ripercussioni di questo stato di cose sulla comunità di immigrati italiani furono pesanti: le tensioni xenofobe sfociarono frequentemente in disordini e violenze, tant'è che le richieste di protezione inviate alla patria d'origine arrivarono a essere seriamente prese in considerazione da Roma e gli stessi rapporti diplomatici fra Italia e Brasile subirono un brusco raffreddamento.
Fu dunque proprio in tale contesto che si arrivò a prendere in considerazione qualcosa di più delle classiche dimostrazioni di forza già attuate in precedenza con l'invio di qualche vascello da guerra lungo le coste brasiliane. Non essendo l'Italia in condizione di poter trascurare a cuor leggero il sostanzioso contributo dato alla nostra bilancia commerciale dai trasferimenti di denaro verso il nostro paese da parte degli immigrati, il capo del governo, che allora era Francesco Crispi, richiese esplicitamente alla Regia Marina di predisporre entro il 1890 una Stazione Navale Permanente dell'America Meridionale, inviando una piccola squadra - quel poco che ci potevamo permettere di distogliere dall'inquieto teatro mediterraneo - a far visita alle comunità italiane in Cile, Argentina e Brasile e a mostrar la nostra bandiera (oltre che i nostri cannoni), non diversamente da quanto fecero altre nazioni. E quando in Brasile (1891) e poi in Argentina (1892) scoppiò una vera e propria guerra civile, le squadre navali europee e statunitensi presenti in quelle acque convennero di riunirsi affidando all'ammiraglio italiano Giovanbattista Magnaghi il comando congiunto.
Tuttavia, fra il 1893 e il 1894, pur permanendo estremamente grave e caotica la situazione di guerra civile in Brasile, tutte le navi italiane vennero inspiegabilmente richiamate in patria a eccezione, inizialmente, dell'ariete torpediniere DOGALI



lasciando così il comando della forza navale congiunta all'ammiraglio statunitense Andrew Benham. Ma nel 1894 anche il DOGALI rientrò in Italia, lasciando il Brasile pesantemente scosso da una terribile epidemia di febbre gialla e da violentissimi tumulti di cui continuarono a fare le spese anche gli immigrati, italiani e di altre nazionalità. Solo nel 1895 la bandiera italiana si rivide sulle coste brasiliane, issata prima sull'albero dell'ariete LIGURIA e poi del LOMBARDIA; purtroppo anche questa fu una presenza effimera, che cessò già nel maggio del 1896 nonostante che la situazione dei nostri connazionali in Brasile non fosse affatto migliorata. A onta dei continui negoziati portati avanti dalla nostra diplomazia, le violenze xenofobe e gli eccidi continuavano senza sosta.

E' in questo quadro totalmente fuori controllo che maturò la più assurda e irrazionale delle idee: il progetto di mandare verso il Brasile una consistente squadra navale con il compito di attuare una vera e propria azione di forza costringendo il governo brasiliano a piegarsi alle richieste di Roma. Una scelta strategicamente del tutto inattuabile e politicamente non indispensabile. Cominciamo ad analizzare i punti focali della questione:

1. mancava un accordo preliminare e un'unità d'intenti con le altre potenze interessate a tutelare i propri interessi e i propri cittadini immigrati in Brasile;

2. mancava anche un'intesa preventiva con le altre nazioni sudamericane (Argentina e Uruguay in primis), intesa che avrebbe dovuto garantirci se non il favore almeno la non ostilità alla nostra azione militare;

3. mancava la segretezza necessaria per poter sferrare il primo colpo cogliendo l'avversario impreparato: infatti il re Umberto I diede disposizioni affinché venisse data la massima pubblicità alla decisione di creare 
la "Squadra dell'Atlantico", nella malcelata speranza che il solo effetto di questa notizia portasse il Brasile a più miti consigli. Cosa che non avvenne affatto, nonostante che la stampa brasiliana avesse dato molta evidenza alla minaccia e che l'opinione pubblica locale ne fosse rimasta molto colpita;

4. mancava la chiarezza sugli obiettivi da raggiungere: se lo scopo primario della missione doveva essere il ripristino della sicurezza per i nostri connazionali in Brasile, ciò era virtualmente irrealizzabile essendo impossibile raggiungere con contingenti militari di terra (cosa comunque mai messa in preventivo) ogni più sperduta zona del Brasile in cui essi si trovavano dispersi a migliaia;

5. mancava, sul posto, il necessario supporto logistico e infrastrutturale per un'operazione navale complessa e di lunga durata da svolgersi a più di 5000 miglia dalla patria;

6. e infine... mancavano i mezzi necessari per conquistare un reale dominio sul mare dinanzi alle coste brasiliane: la Regia Marina era pesantemente impegnata nel teatro del Mar Rosso, e nel Mediterraneo non si erano ancora affatto abbassata la tensione con la Francia, quindi era virtualmente impossibile poter costituire una flotta di dimensioni e capacità adeguate per portare a termine la missione in Brasile.

E tralascio una ulteriore serie di considerazioni più specificamente tattiche e operative, che non troverebbero in questa sede utile trattazione.
Tutto questo, comunque, su sollecitazione del ministro della Marina Benedetto Brin, una delle poche menti pensanti di cui disponevamo all'epoca, venne sollecitamente portato a conoscenza del governo e del Re, e alla fine della "spedizione punitiva" non se ne fece nulla. Per fortuna.

Ho comunque il sospetto che il conte di Cavour, in quel periodo, ebbe a rivoltarsi nella tomba più di una volta.

lunedì 9 settembre 2013

Emmanuel Swedenborg, dal pensiero scientifico al misticismo.

Erudito? filosofo? profeta? mistico? oppure solo un visionario?



Apparentemente di questo personaggio si potrebbe dire tutto e il contrario di tutto, tuttavia io preferisco immaginare un unico filo conduttore nel suo travaglio intellettuale e mi limito a definirlo semplicemente uno straordinario ricercatore: un uomo che si pose sempre nuove domande e che non smise mai di cercare risposte ovunque tale ricerca potesse portarlo. La sua peculiarità fu infatti, come il titolo dell'articolo ci prefigura, l'aver osato spaziare disinvoltamente dall'immanenza alla trascendenza senza esitare, senza particolari imbarazzi e senza guardarsi indietro più di tanto, sempre alla ricerca di quel principio unificatore dei diversi piani dell'esistenza che in fin dei conti rappresenta ancor oggi la sfida più epica e suggestiva per ogni spirito che si voglia definire "libero" nell'accezione più ampia del termine.

Ma diamo un'occhiata alla sua sorprendente biografia: Swedenborg nasce a Stoccolma nel 1688, in pieno sviluppo di quel "luteranesimo moderato" che caratterizzò la penisola scandinava nel sec. XVII e che permise anche a suo padre, tal Jesper Swedberg, di diventare prima pastore e poi vescovo. Non deve quindi stupire se, cresciuto in questo ambito familiare e culturale, il giovane Emmanuel diventa dottore in teologia già nel 1709, a soli 21 anni.
Tuttavia, ben presto la sua sete di conoscenza lo porta a spaziare ben oltre, affermandosi sempre più nello studio delle lingue, dell'astronomia, dell'anatomia umana, della matematica, della geologia e dell'economia politica. E non è affatto peregrino l'accostamento di questo spirito enciclopedico con l'eclettismo creativo di Leonardo da Vinci. A puro titolo di esempio, ricordando gli studi leonardeschi sulle macchine volanti, non possiamo non sottolineare che anche Swedenborg si cimentò in questa sfida alle leggi della natura progettando un originale ornitottero a pianta anulare.

Questa macchina volante era per quei tempi un rimarchevole esempio di ingegneria aeronautica, in quanto possedeva già embrionalmente alcune caratteristiche tipiche dei successivi "veri" velivoli più pesanti dell'aria: un carrello d'atterraggio a ruote, superfici aerodinamiche di sostentamento curvate sia in larghezza che in lunghezza, e il caratteristico posizionamento del pilota in posizione centrale, quindi in prossimità del baricentro del velivolo, prefigurando quindi per certi versi le moderne tecnologie dell'aerodinamica a stabilità rilassata. Per la cronaca, un ornitottero basato su simili scelte progettuali fu effettivamente realizzato da Alphonse Penaud nel 1872, ed era un trabiccolo che riusciva anche a volare per qualche metro sotto la spinta della propulsione a elastico.

Comunque, l'importanza della figura di Swedenborg nella cultura europea della prima metà del sec. XVIII non è data tanto dai suoi studi scientifici quanto piuttosto dalla sua deriva mistica: egli in effetti non aveva mai rinnegato il concetto di un Dio artefice e padre dell'universo in favore di un mero razionalismo, e superata la boa simbolica dei 50 anni di età cominciò a riavvicinarsi allo studio del trascendente attraverso una serie di esperienze mistiche veramente fuori dal comune. Solo il prestigio di cui godeva presso la corte di Svezia e anche presso nuove emergenti personalità del mondo della cultura dell'epoca, fra cui ritroveremo lo stesso Immanuel  Kant, gli consentì di non dover subire le conseguenze delle sue posizioni considerate ormai totalmente eretiche rispetto al Luteranesimo.
Nel 1744, dopo una malattia che durò più di un anno, Swedenbord cominciò ad avere le prime visioni dell'aldilà, ma le visioni non restarono episodiche bensì si ripeterono, ed egli sosteene di essere entrato in contatto con gli spiriti dei morti, fra cui persino Virgilio e Lutero. A questo punto, lo studioso attento e scrupoloso che egli era stato sinora si trasforma in un vero e proprio veggente e Swedenborg comincia ad annotare tutte le sue esperienze mistiche in un manoscritto noto con il nome di "Diario dei sogni" intraprendendo un percorso di autoanalisi psichica, anche attraverso tecniche di autoipnosi, che secondo lui erano il mezzo attraverso il quale l'uomo poteva prendere contatto con gli spiriti. Fra le sue visioni più note possiamo citare (invero con una certa perplessità mista a inquietudine) la minuziosa e dettagliata descrizione dell'incendio di Stoccolma del 1759, fatta "in diretta" mentre egli si trovava a Goteborg, ovvero a 500 chilometro di distanza. Swedenborg, successivamente, dichiara anche di aver visto il Giudizio Universale e di aver anche visitato tutti i pianeti del sistema solare.
Swedenborg predice persino la sua morte, avvenuta in Inghilterra nel 1772, e ci lascia in eredità una collezione monumentale di opere a sfondo mistico ed esegetico che vengono successivamente diffuse in Francia ad opera della Massoneria e che in seguito influenzano il pensiero di molti illustri personaggi dell'epoca, in primis Cagliostro e Honoré de Balzac. Fu proprio quest'ultimo che soprannominò Swedenborg "Il Buddha del Nord" e che ebbe a dichiarare: "La dottrina di Swedenborg è una ripetizione in senso cristiano di antiche idee, ed è la mia religione".

E sempre in termini di religione, è opportuno ricordare che poco dopo la morte di Swedenborg verrà fondata a Londra la Chiesa della Nuova Gerusalemme, che ancora oggi conta negli Stati Uniti parecchie migliaia di fedeli.

C'è solo da chiedersi, a questo punto, come mai un personaggio di cotanto spessore non abbia avuto modo di lasciare una sua impronta anche nella cultura italiana dell'epoca. E la risposta è sempre la stessa, ovvia e scontata, banale nella sua amara tragicità: a Roma, a quei tempi, così come fu prima e così come sarebbe stato anche dopo, c'era il Papa. Una cultura che non ammetteva concorrenza alcuna.

domenica 8 settembre 2013

Pillole di storia: la verità sull'Italia cobelligerante (1943-1945)

Oggi, 8 settembre 2013, sono passati esattamente 70 anni dal giorno in cui venne formalmente annunciato l'armistizio, firmato il 3 settembre 1943, che determinò la cessazione delle ostilità fra l'Italia e gli Alleati. Un evento, questo, che al pari di tanti altri del XX secolo meriterebbe comprensione più approfondita di quella che ci è stata comunemente propinata finora.

Qualche "fortunato" (si fa per dire, le virgolette sono volute) potrebbe, nell'ultimo anno delle scuole superiori, essere arrivato a lambire lo studio della storia italiana più recente: per intenderci, quella che va dal primo dopoguerra sino alla nascita della repubblica.
Si tratta di un periodo per il quale l'indagine storiografica può facilmente essere condizionata da posizioni politiche e, in particolare, la produzione stessa di testi storici per utilizzo didattico può risentire di condizionamenti, mistificazioni, censure e omissioni, il tutto per ben precise decisioni "di opportunità" prese a livello istituzionale.
Questo, sia chiaro, è esattamente ciò che si è verificato nella scuola italiana del secondo dopoguerra, soprattutto per quanto riguarda lo spinoso argomento della nascita del fascismo e, a seguire, l'entrata in guerra dell'Italia, la caduta di Mussolini, l'armistizio, la lotta partigiana, la cobelligeranza con gli alleati e la repubblica di Salò.

Ciascuno di questi singoli eventi meriterebbe, sia pure a livello meramente divulgativo, una trattazione svincolata dalla retorica di parte: molto probabilmente se ne ricaverebbero nuovi e interessanti parametri di valutazione riguardo molti eventi topici del periodo storico considerato. Per esempio, la storiografia ufficiale ci ha raccontato che le forze armate italiane, dopo l'armistizio, combatterono insieme agli angloamericani dando il proprio contributo sia alla liberazione del territorio nazionale dall'occupazione tedesca sia, più in generale, alla vittoria degli Alleati in altri teatri operativi. In realtà le cose non andarono affatto così: il contributo certamente ci fu e fu un contributo che ci costò tanto sangue versato e tante vite sacrificate, ma nell'economia globale del conflitto tutto questo fu virtualmente irrilevante dal punto di vista strategico e deve essere valutato esclusivamente per il suo valore politico; non vi è infatti alcun dubbio che la guerra, se anche non ci fossero state le forze armate cobelligeranti italiane, non sarebbe durata né un giorno in più né un giorno in meno e sarebbe finita esattamente nello stesso modo. Caso mai, sarebbe più corretto affermare che è soprattutto alle formazioni partigiane che si deve riconoscere un contributo operativo tutto sommato non del tutto irrilevante - pur se molto sopravvalutato, a posteriori, anche qui per motivi esclusivamente politici - alla vittoria alleata sul fronte italiano.

Beh, certo, non ci dobbiamo stupire se la politica cerca (e non di rado ci riesce benissimo) di riscrivere sistematicamente la storia piegandola ai propri interessi di bottega: chiunque voglia approcciarsi con serietà all'indagine storiografica sa che deve tener bene a mente questo elementare concetto e farne tesoro.

Ma torniamo a noi.

Un punto essenziale da rimarcare è il fatto che l'8 settembre 1943 è tecnicamente da considerarsi più una resa senza condizioni che un semplice armistizio. Le promesse di Churchill e Roosevelt di consentire alle forze armate italiane di entrare subito in azione contro i tedeschi rimasero lettera morta e al contrario, già il 21 settembre 1943 il generale MacFarlane, comandante della Missione Militare alleata distaccata presso il governo di Brindisi, disse chiaro e tondo che le truppe italiane "non avrebbero dovuto partecipare a combattimenti sino a nuovo ordine" e successivamente lo stesso generale Alexander, smentendo le ipotesi avanzate dallo stesso Eisenhower in merito alla possibilità che reparti italiani partecipassero alla liberazione di Roma, ribadì il suo totale disinteresse alla cosa affermando che, sulla base dei piani già predisposti per la presa della capitale, "non era affatto previsto" l'inserimento di ulteriori forze. Una posizione che, come possiamo immaginare, era basata su presupposti essenzialmente politici.

E che da parte alleata non si volesse affatto la collaborazione armata italiana fu subito chiaro quando vennero totalmente ignorate una serie di proposte rapidamente elaborate dal nostro Stato Maggiore:
il progetto di una operazione di sbarco ad Ancona, al fine di tagliare le linee di comunicazione alle prime linee tedesche operanti nel centro Italia;
una operazione più limitata, tesa a riconquistare l'isola dalmata di Lagosta;
la creazione di una unità mista composta dal IX Corpo d'Armata italiano e dal V Corpo d'armata inglese;
la creazione di nuove grandi unità combattenti utilizzando i prigionieri di guerra dei campi di concentramento in Africa settentrionale;
e infine, il progetto di evacuare dalle isole greche di Sarno e Cefalonia le divisioni Cuneo e Acqui, cosa che determinò per quelle grandi unità i tragici fatti che sappiamo.

Insomma, gli Alleati, almeno sino alla primavera del 1944, non sapevano proprio che farsene del nostro esercito, tant'è che insistettero sempre per utilizzare i militari italiani come manovalanza di supporto invece che come forza di combattimento di prima linea. E il motivo era sempre lo stesso: non si intendeva assolutamente dare nuova dignità politica all'ex nemico sconfitto, il quale all'atto dell'armistizio contava pur sempre, nei territori dell'Italia centro-meridionale, in Sardegna e in Corsica, su una forza combattente di quasi mezzo milione di uomini che, se solo lo si fosse voluto, avrebbe potuto ben figurare.

Quello che si chiama "Corpo Italiano di Liberazione", quindi, arrivò a essere costituito da poche migliaia di uomini (non più di 20000 secondo le intenzioni del comando alleato in Italia) inquadrati, a partire dal luglio 1944, in "gruppi di combattimento" (MANTOVA, PICENO, FOLGORE, LEGNANO, FRIULI e CREMONA), denominazione appositamente voluta dagli alleati per non utilizzare il termine "Divisione", che avrebbe dato al C.I.L. una visibilità e un riconoscimento formale - e quindi anche politico - che a Londra e a Washington non era affatto desiderato per gli stessi identici motivi per cui non si voleva dare pari visibilità alle formazioni partigiane che operavano nelle zone occupate dai tedeschi e nei territori della Repubblica di Salò.

lunedì 2 settembre 2013

Pillole di storia: presupposti e antefatti da Adua a Tripoli.

Negli ultimi 20 anni del XIX secolo le principali potenze europee, Francia in primis, diedero inizio al processo di spartizione dell’Africa in protettorati, scalzando man mano il loro principale concorrente locale, cioè l’Egitto, che aveva già messo le mani su Sudan, Uganda e Eritrea.

Fino a quel momento in Africa si può dire che esistevano solo insediamenti commerciali essenzialmente costieri, sui quali battevano le bandiere inglesi, spagnole, francesi, portoghesi e boere. Ma nello spazio di poco più di due decadi, di libero dall'influenza europea non vi fu quasi più nulla: restavano in pratica solo la Libia, l’Etiopia e il Marocco, quest’ultimo peraltro diventato già nel 1911 protettorato francese, mentre l’Etiopia, come sappiamo, si dimostrò osso assolutamente troppo duro per le ambizioni coloniali di una nazione totalmente impreparata a questa impresa come fu l’Italia ai tempi della cocente sconfitta di Adua.

Per inciso, vorrei a questo punto cogliere l’occasione per “liberare” il fascismo dall'accusa di velleitarismo colonialista: se è pacifico che il “posto al sole” fu fortissimamente voluto da Mussolini, è anche vero che non è certamente a quest’ultimo che si deve ascrivere la responsabilità primigenia della partecipazione italiana alla più clamorosa opera di scempio di risorse naturali, materiali e umane che l’Africa ebbe a subire in tutta la sua storia e che, come ho detto, si concentrò negli ultimi 20 anni del XIX secolo. Il colonialismo italiano non nasce con il fascismo ma con Umberto I e prosegue con Vittorio Emanuele III quando il Duce (o presunto tale) non era affatto comparso sulla scena politica. Mussolini ebbe semplicemente la “colpa” di riuscire dove in precedenza altri avevano fallito.

Ma torniamo ai fatti del 1911.

In verità a quell'epoca la Libia non era affatto una nazione autonoma, essendo a tutti gli effetti territorio d’oltremare turco. Ma questo non spaventò certo il governo italiano, che riteneva di poter prendere facilmente con la forza ciò che con la diplomazia non si era riusciti ancora a ottenere nonostante una serie di iniziative portate avanti con il consenso più o meno tacito delle “vere” grandi potenze europee.

Una convinzione, quella che la partita sarebbe stata facile, che alla prova dei fatti sarebbe stata duramente smentita.

Giolitti infatti, per minimizzare costi e perdite dell’impresa militare, aveva ordinato ai militari di prendere possesso delle zone costiere ma di non spingersi più di tanto nell'interno. I presupposti di questa decisione sono da individuarsi essenzialmente in questioni di politica interna più che di diplomazia: sin dal precedente periodo in cui era stato al governo, Giolitti aveva impostato una serie di riforme sociali e economiche tese a incentivare i consumi e a favorire lo sviluppo dell'industria pesante, il tutto al fine di diminuire il gap fra l'Italia e le nazioni europee più sviluppate. Tutto questo, però, comportava la necessità di barcamenarsi fra le istanze della sinistra in tema di giustizia sociale e le ambizioni della nascente classe imprenditoriale. Il III (1906-1909) e il IV governo Giolitti (1911-1914), quindi, furono caratterizzati da intrinseche contraddizioni e da una linea politica che non poteva certo dirsi caratterizzata da un ben preciso percorso ideologico. E' in questa chiave di lettura che possono inquadrarsi e spiegarsi atti apparentemente contraddittori, come per esempio la concessione del suffragio universale (ancorché solo maschile), già richiesto a gran voce dalle sinistre, ma anche la guerra contro la Turchia, che andava incontro ai velleitarismi nazionalistici della destra: non dobbiamo peraltro dimenticare che Trento e Trieste erano ancora austroungariche e che in Italia molte forze politiche soffiavano sul fuoco del revanscismo e credevano - probabilmente non a torto - che solo una nazione dotata di prestigio imperiale potesse aspirare a soddisfare i suoi aneliti irredentistici.

Tuttavia, la mancanza di una vera e propria consolidata e matura coscienza nazionale non consentiva alla politica di agire con tutta la necessaria determinazione nei mutevoli scenari dei rapporti con le grandi potenze europee, fra le quali l'Italia era pur sempre il classico vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro: questa perdurante debolezza rappresentò una costante sino all'avvento del fascismo.
Non deve quindi stupire - anche se questo non vuol dire essere d'accordo - che l'impresa libica fu affrontata con una certa circospezione sia dai militari sia dai politici. Una ipotetica seconda Adua avrebbe distrutto irrimediabilmente quel poco di credibilità che l'Italia possedeva allora a livello internazionale.

Altro fattore rilevante nel determinare il tipo di approccio alle operazioni in Libia era certamente la questione della reale affidabilità dello strumento militare italiano sia terrestre sia marittimo, che ancora risentiva delle ferite di Lissa, che pochi anni prima aveva dato pessima prova di sé in Etiopia e in Eritrea, e che dimostrava un livello di preparazione complessivamente mediocre oltre alla mancanza di una dottrina strategica di largo respiro. Non che ci sia da stupirsi, del resto, visto che una chiara visione globale - con le uniche lodevoli eccezioni di Douhet e Mecozzi - non fu mai un punto di forza del Regno d'Italia prima e della Repubblica italiana poi, sino ai giorni nostri...

Comunque, ciò premesso, è abbastanza facile immaginare a quali conseguenze - dal punto di vista strettamente strategico - dovette portare la decisione di avanzare in Libia con i piedi di piombo, decisione presa in contrasto con qualsiasi elementare norma di dottrina militare, per non parlare di quanto fosse in contrasto con il semplice buon senso.


Sta di fatto che l’esercito turco, appoggiato dalle bande tribali di irregolari che l’insipienza italiana non era stata capace di portare preventivamente dalla propria parte attraverso la diplomazia e, perché no, anche tramite la corruzione, dicevo, sta di fatto che i turchi si ritirarono virtualmente indisturbati nell’interno del paese e dopo essersi riorganizzati arrivarono a circondare e a volte anche assediare le località conquistate dagli italiani, trasformando il conflitto da un tipico scontro fra eserciti regolari (come era inizialmente) alla più classica delle guerriglie asimmetriche in pieno stile afgano, guerriglia in cui berberi e arabi erano maestri e avevano per giunta il vantaggio della perfetta conoscenza del terreno oltre a poter disporre di linee logistiche di rifornimento che gli italiani non avevano saputo - o potuto - interrompere, sia lungo il confine tunisino sia - addirittura - tramite il porto di Misratah, la cui occupazione era stata inspiegabilmente trascurata da parte nostra.
Ultimo fattore, peraltro, che nessuno a Roma sembrò prendere in considerazione, fu il prevedibile richiamo alla Jihad contro l'invasore infedele (siamo alle solite) che Istanbul seppe sfruttare benissimo a livello propagandistico, tanto che arabi e berberi continuarono autonomamente la lotta armata contro gli invasori italiani anche dopo la cessazione formale delle ostilità fra Italia e Turchia, lotta che terminò virtualmente solo nei primi anni '30 del XX secolo dopo una serie di alterne vicende anche molto sanguinose.


Tutto questo ci insegna ancora una volta una lezione mai sufficientemente compresa, e cioè che quando si decide di dar voce alle armi la politica deve concepire, e dichiarare esplicitamente ai militari, quelli che devono essere gli obiettivi strategici della guerra, ma deve lasciare il più possibile mano libera ai militari per quanto riguarda i modi e i tempi con cui tali obiettivi devono essere raggiunti.
Quando questo non succede e si permette ai politicanti di esercitare la loro miopia in campo strategico, il disastro è dietro l'angolo: vedasi – appunto – il caso libico di cui stiamo parlando, oppure la guerra del Vietnam (altro esempio di scuola), oppure l’odierno conflitto afgano, e così via.

Lao Tzu diceva che l’esercito migliore è quello che vince senza bisogno di combattere. Sono d’accordo. Ma quando si arriva a combattere, l’unico modo logico di condurre una guerra è cercare di arrecare più danni possibili al nemico nel più breve tempo possibile, e “se possibile” minimizzare le proprie perdite, ma accettando anche un alto tributo di sangue se non se ne può fare a meno.
La guerra non è uno sport e nemmeno un gioco per signorine.

E i turchi, che signorine non erano, almeno per quanto riguarda le forze di terra, non si dimostrarono né meno preparati né peggio equipaggiati (i loro fucili Mauser mod. 1890 erano, per esempio, ben superiori ai corrispondenti mod. 91 italiani e a livello di artiglierie avevano ottimi cannoni Krupp mod. 1903 da 75 mm a tiro rapido) e né meno organizzati di qualsiasi corrispondente moderno esercito europeo, e se ne ebbe la prova anche qualche anno dopo, quando persino inglesi e francesi presero una sonora sportellata sui dentini a Gallipoli.

Questi dunque erano i presupposti della campagna libica, che deve essere considerata significativa essenzialmente perché fu il primo complesso di operazioni di vasto respiro in cui venne utilizzata compiutamente la terza dimensione, ovvero l’arma aerea. E deve essere considerata una fortuna, per gli italiani, che fosse stato deciso di aggregare al corpo di spedizione alcuni dirigibili, che si dimostrarono utilissimi nell’osservazione, e una squadriglia di Bleriot, che, pur nella estrema limitatezza delle loro prestazioni, fornirono valido apporto nell’opera di ricognizione e di osservazione aerea e ottennero i primi embrionali risultati nel campo dell’appoggio tattico, con i primi esempi di bombardamento aria-terra fatto con rudimentali ordigni derivati da bombe a mano.


Per quanto riguarda le operazioni terrestri non è il caso di addentrarsi in dettagli, poiché esse furono rare e di respiro eminentemente tattico: gli stati maggiori, del resto, sapevano benissimo che la battaglia decisiva non si giocava fra le sabbie del deserto ma in tutt'altro luogo, e cioè nel mare dei Dardanelli, del Dodecanneso e del mar Rosso, e i protagonisti principali non sarebbero stati i fanti ma i marinai. E così fu.
A tal proposito, vale la pena di sottolineare che proprio nell'Egeo gli stati maggiori italiani seppero volgere a proprio favore la tradizionale avversità delle popolazioni di stirpe greca nei confronti dell'occupatore turco, garantendosene quindi il favore e la collaborazione. Cosa che, come abbiamo visto, non riuscì affatto sul teatro operativo libico in cui le pastoie della politica si erano fatte sentire negativamente sin dall'inizio delle operazioni.

Del resto, che la classe politica italiana dell'epoca fosse sostanzialmente impreparata a gestire un processo storico epocale come il colonialismo, è cosa ormai nota e dimostrata da miriadi di esempi di insipienza e dilettantismo. Ne cito uno per tutti, ovvero la pazzesca ipotesi, avanzata negli ultimi anni del XIX secolo, di... muover guerra addirittura al Brasile (!). Una cosa allucinante, di cui poco o nulla si sa al di fuori dei circoli degli appassionati di storia militare. Ma di questo misconosciuto risvolto della storia italiana sarà proprio il caso di parlare un'altra volta.