Oggi, 8 settembre 2013, sono passati esattamente 70 anni dal giorno in cui venne formalmente annunciato l'armistizio, firmato il 3 settembre 1943, che determinò la cessazione delle ostilità fra l'Italia e gli Alleati. Un evento, questo, che al pari di tanti altri del XX secolo meriterebbe comprensione più approfondita di quella che ci è stata comunemente propinata finora.
Qualche "fortunato" (si fa per dire, le virgolette sono volute) potrebbe, nell'ultimo anno delle scuole superiori, essere arrivato a lambire lo studio della storia italiana più recente: per intenderci, quella che va dal primo dopoguerra sino alla nascita della repubblica.
Si tratta di un periodo per il quale l'indagine storiografica può facilmente essere condizionata da posizioni politiche e, in particolare, la produzione stessa di testi storici per utilizzo didattico può risentire di condizionamenti, mistificazioni, censure e omissioni, il tutto per ben precise decisioni "di opportunità" prese a livello istituzionale.
Questo, sia chiaro, è esattamente ciò che si è verificato nella scuola italiana del secondo dopoguerra, soprattutto per quanto riguarda lo spinoso argomento della nascita del fascismo e, a seguire, l'entrata in guerra dell'Italia, la caduta di Mussolini, l'armistizio, la lotta partigiana, la cobelligeranza con gli alleati e la repubblica di Salò.
Ciascuno di questi singoli eventi meriterebbe, sia pure a livello meramente divulgativo, una trattazione svincolata dalla retorica di parte: molto probabilmente se ne ricaverebbero nuovi e interessanti parametri di valutazione riguardo molti eventi topici del periodo storico considerato. Per esempio, la storiografia ufficiale ci ha raccontato che le forze armate italiane, dopo l'armistizio, combatterono insieme agli angloamericani dando il proprio contributo sia alla liberazione del territorio nazionale dall'occupazione tedesca sia, più in generale, alla vittoria degli Alleati in altri teatri operativi. In realtà le cose non andarono affatto così: il contributo certamente ci fu e fu un contributo che ci costò tanto sangue versato e tante vite sacrificate, ma nell'economia globale del conflitto tutto questo fu virtualmente irrilevante dal punto di vista strategico e deve essere valutato esclusivamente per il suo valore politico; non vi è infatti alcun dubbio che la guerra, se anche non ci fossero state le forze armate cobelligeranti italiane, non sarebbe durata né un giorno in più né un giorno in meno e sarebbe finita esattamente nello stesso modo. Caso mai, sarebbe più corretto affermare che è soprattutto alle formazioni partigiane che si deve riconoscere un contributo operativo tutto sommato non del tutto irrilevante - pur se molto sopravvalutato, a posteriori, anche qui per motivi esclusivamente politici - alla vittoria alleata sul fronte italiano.
Beh, certo, non ci dobbiamo stupire se la politica cerca (e non di rado ci riesce benissimo) di riscrivere sistematicamente la storia piegandola ai propri interessi di bottega: chiunque voglia approcciarsi con serietà all'indagine storiografica sa che deve tener bene a mente questo elementare concetto e farne tesoro.
Ma torniamo a noi.
Un punto essenziale da rimarcare è il fatto che l'8 settembre 1943 è tecnicamente da considerarsi più una resa senza condizioni che un semplice armistizio. Le promesse di Churchill e Roosevelt di consentire alle forze armate italiane di entrare subito in azione contro i tedeschi rimasero lettera morta e al contrario, già il 21 settembre 1943 il generale MacFarlane, comandante della Missione Militare alleata distaccata presso il governo di Brindisi, disse chiaro e tondo che le truppe italiane "non avrebbero dovuto partecipare a combattimenti sino a nuovo ordine" e successivamente lo stesso generale Alexander, smentendo le ipotesi avanzate dallo stesso Eisenhower in merito alla possibilità che reparti italiani partecipassero alla liberazione di Roma, ribadì il suo totale disinteresse alla cosa affermando che, sulla base dei piani già predisposti per la presa della capitale, "non era affatto previsto" l'inserimento di ulteriori forze. Una posizione che, come possiamo immaginare, era basata su presupposti essenzialmente politici.
E che da parte alleata non si volesse affatto la collaborazione armata italiana fu subito chiaro quando vennero totalmente ignorate una serie di proposte rapidamente elaborate dal nostro Stato Maggiore:
il progetto di una operazione di sbarco ad Ancona, al fine di tagliare le linee di comunicazione alle prime linee tedesche operanti nel centro Italia;
una operazione più limitata, tesa a riconquistare l'isola dalmata di Lagosta;
la creazione di una unità mista composta dal IX Corpo d'Armata italiano e dal V Corpo d'armata inglese;
la creazione di nuove grandi unità combattenti utilizzando i prigionieri di guerra dei campi di concentramento in Africa settentrionale;
e infine, il progetto di evacuare dalle isole greche di Sarno e Cefalonia le divisioni Cuneo e Acqui, cosa che determinò per quelle grandi unità i tragici fatti che sappiamo.
Insomma, gli Alleati, almeno sino alla primavera del 1944, non sapevano proprio che farsene del nostro esercito, tant'è che insistettero sempre per utilizzare i militari italiani come manovalanza di supporto invece che come forza di combattimento di prima linea. E il motivo era sempre lo stesso: non si intendeva assolutamente dare nuova dignità politica all'ex nemico sconfitto, il quale all'atto dell'armistizio contava pur sempre, nei territori dell'Italia centro-meridionale, in Sardegna e in Corsica, su una forza combattente di quasi mezzo milione di uomini che, se solo lo si fosse voluto, avrebbe potuto ben figurare.
Quello che si chiama "Corpo Italiano di Liberazione", quindi, arrivò a essere costituito da poche migliaia di uomini (non più di 20000 secondo le intenzioni del comando alleato in Italia) inquadrati, a partire dal luglio 1944, in "gruppi di combattimento" (MANTOVA, PICENO, FOLGORE, LEGNANO, FRIULI e CREMONA), denominazione appositamente voluta dagli alleati per non utilizzare il termine "Divisione", che avrebbe dato al C.I.L. una visibilità e un riconoscimento formale - e quindi anche politico - che a Londra e a Washington non era affatto desiderato per gli stessi identici motivi per cui non si voleva dare pari visibilità alle formazioni partigiane che operavano nelle zone occupate dai tedeschi e nei territori della Repubblica di Salò.
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