lunedì 2 dicembre 2013

Sotto il format, niente.

Quando penso alla vecchia cara tv anni '60, per intenderci quella in cui alle gemelle Kessler veniva imposto di indossare collant neri perché quelli trasparenti suscitavano lo scandalo dei benpensanti e dei moralisti, non


posso fare a meno di constatare quale distanza siderale ci separi culturalmente da quel mondo, e non solo in campo televisivo. Mio padre, per esempio, all'epoca comandante della stazione dei Carabinieri di una ridente località balneare abruzzese, d'estate disponeva su spiagge e lidi servizi di sorveglianza finalizzati a controllare che le ragazze sotto l'ombrellone non indossassero lo "scandaloso" costume a due pezzi ma il più pudico costume intero. Tant'è. Ma non temete, non intendo tediarvi con il solito scontato pistolotto sui tempi che cambiano o addirittura su come si stava meglio quando si stava peggio. No. Al contrario, rimanendo strettamente nel campo della comunicazione mediatica, vorrei piuttosto sottolineare quanto certi cambiamenti siano solo esteriori e consistano in semplici e inevitabili adattamenti cosmetici che però lasciano inalterata la filosofia di base, la quale rimane sempre uguale a sé stessa.

Quando la televisione era costituita da un solo soggetto, cioè la Rai, che trasmetteva su un solo canale orgogliosamente chiamato "canale nazionale" e che solo a un certo punto ci ha messo a disposizione il "secondo canale" (locuzione che oggi, per inciso, è diventata in campo televisivo così desueta da aver assunto nel linguaggio comune un significato del tutto diverso, attinente a certe particolari interazioni di coppia così ben esplicate da Marlon Brando e da Maria Schneider nel film "Ultimo tango a Parigi"), il fruitore finale di questa meraviglia della tecnologia era chiamato "telespettatore" (in inglese, "viewer", ovvero "colui che guarda, o più raramente "spectator", ovvero "colui che assiste"). In ogni caso, l'idea era quella di un elemento del tutto passivo: questo passa il convento e questo ti sorbisci, amen, prendere o lasciare. Non hai alternative. Non puoi scegliere. Anche il telegiornale veniva spesso chiamato "comunicato", vocabolo che rende decisamente bene l'idea di una minestra preconfezionata da sorbirsi piaccia o no e possibilmente senza fare tante storie. Il MinCulPop non esisteva più ma non si era dissolto senza lasciare eredi.

Le cose in apparenza cominciarono a cambiare negli anni '70, quando la capillarizzazione della diffusione dell'apparecchio televisivo in tutte le famiglie ebbe come conseguenza l'allargamento dei fruitori di questa icona della modernità: persino i bambini, che una volta venivano tassativamente mandati a dormire "dopo Carosello", arrivarono a conquistare la tv nella loro cameretta e anche questo era il segno che nuovi orizzonti si aprivano. Infatti di lì a poco arrivarono le tv private e si schiuse il vaso di Pandora della televisione commerciale sulla scia di quanto già era da tempo avvenuto in altre parti d'Europa e negli Stati Uniti.

E fu così che sparì progressivamente la figura del semplice telespettatore, e venne trionfalmente alla ribalta il "pubblico" (in inglese, "public"), termine decisamente più adatto a definire e descrivere il nuovo soggetto, proprietario e padrone assoluto non tanto dell'apparecchio televisivo quanto soprattutto del suo telecomando, e quindi a tutti gli effetti depositario della libertà di scegliere cosa guardare.

Una vera e propria rivoluzione copernicana. O forse no.

Infatti quando parliamo di tv commerciale ci riferiamo a un contesto in cui valgono le leggi della domanda e dell'offerta e sappiamo bene che, quando la domanda ristagna, il venditore cerca in tutti i modi di stimolarla. A tal fine, attraverso ben precise strategie di marketing, si creano veri e propri bisogni indotti, ovvero meccanismi di attrazione verso un dato prodotto basati sul convincimento che esso è utile o addirittura necessario quando invece è del tutto superfluo. Ma come avviene quest'opera di convincimento? semplice: non si cerca di farti credere direttamente che ti serve proprio quel prodotto ma attraverso una serie di input mirati vieni portato a "scoprire" dentro di te un bisogno di cui finora non avevi avuto la consapevolezza, un bisogno che (ma tu guarda la combinazione!) puoi soddisfare pienamente proprio tramite quel prodotto. Accidenti, ma come ho fatto a vivere finora senza la connessione wireless? Accidenti, ma come ho fatto a vivere finora senza il telefonino touch screen? Accidenti, ma come ho fatto a vivere finora senza un impianto dolby surround? Accidenti, ma come ho fatto a vivere finora senza la tv al plasma?

Accidenti, ma come ho fatto finora a vivere bevendo l'acqua del rubinetto invece di quella imbottigliata?

A tal proposito vi propongo di guardare questo breve filmato che spiega molto bene e in maniera estremamente semplice ciò di cui sto parlando:



Ecco, questi che vi ho elencato (l'acqua minerale, il tablet, il tv al plasma, ecc.) sono solo alcuni esempi di bisogni indotti, ovvero necessità che oggettivamente non sono affatto necessità ma che rappresentano la fase iniziale del processo che porta il bersaglio di questa sottile manipolazione psicologica a entrare in negozio e metter mano al portafogli invece di rimanersene tranquillo a guardare distrattamente le vetrine.

In campo televisivo, ovviamente, le cose sono un attimino più complicate perché non si tratta di indurre bisogni materiali, soddisfacibili entrando in possesso di beni tangibili, ma si tratta di creare abitudini influenzando i gusti del target di riferimento. Il bisogno indotto di base, chiariamolo subito, è proprio l'utilizzo quotidiano del televisore: il target, appena rientra a casa, senza nemmeno togliersi il soprabito, deve accendere subito la tv. Non esiste accendere la radio, non esiste mettersi a leggere un libro, non esiste accendere lo stereo, non esiste mettersi a chiacchierare con gli altri membri della famiglia, giocare con i bambini, portare a spasso il cane. E' invece cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza impadronirsi immediatamente del telecomando e cercare di battere il record condominiale di rapidità nel cambio di canale.
Successivamente, una volta raggiunto questo primo obiettivo, si scatena l'equivalente televisivo del visual merchandising, ovvero tutte quelle tecniche finalizzate a far sì che il pubblico segua determinati contenuti e vi si affezioni. A tal proposito è utile ripercorrere le tappe che hanno portato a elevatissimi indici di gradimento quella forma di intrattenimento televisivo oggi comunemente chiamata talk-show.

In Italia la prima proposta in tal senso fu "Domenica in" su Rai 1, quando ancora le frequenze televisive erano patrimonio esclusivo dell'emittente pubblica: non siamo ancora al format del talk-show come lo conosciamo oggi, ma si riconoscevano comunque gli elementi caratteristici dell'intrattenimento proposto tramite una serie di ospiti. La trasmissione riscosse subito un successo enorme, tant'è che anche Rai 2 ne fece immediatamente una sua versione alternativa, che non a caso si chiamò "L'altra domenica" e che fu condotto da Renzo Arbore, personaggio di elevatissima caratura artistica che ebbe poi in "Quelli della notte" e in "Indietro tutta" l'apice del suo successo televisivo. Comunque, la vera affermazione in Italia del talk-show nella sua forma più classica porta senza dubbio il nome di Maurizio Costanzo, prima con "Bontà loro" e poi a seguire con altri programmi simili, sino a giungere al famosissimo e longevo "Maurizio Costanzo show".

Ma veniamo al giorno d'oggi, in cui il talk-show è un format ormai presente in ogni palinsesto trasformandosi dal modello "generalista" stile Maurizio Costanzo al modello "tematico", il cui tipico esempio è quello a contenuto politico; in questo specifico settore la scelta è veramente vasta sia nella tv pubblica che in quella privata, e copre praticamente tutti i giorni della la settimana: si comincia il lunedì con l'appuntamento settimanale di "Piazza pulita" su LA7, il martedì troviamo "Ballarò" su RAI 3, il mercoledì ancora su LA7 troviamo "La gabbia", il giovedì c'è "Servizio pubblico" sempre su LA7, il venerdì l'offerta si sposta su RAI 2 con "Virus", e per il fine settimana torna RAI 3 con "Che tempo fa". Per non parlare degli appuntamenti praticamente quotidiani con Lilli Gruber a "Otto e mezzo", e senza tralasciare "Porta a porta" su RAI 1 dal lunedì al giovedì, anche se quest'ultimo, così come "Che tempo fa", rientra più nella categoria del talk-show generalisti pur essendo caratterizzato da una presenza molto assidua delle tematiche politiche.

Bene. A questo punto possiamo approfondire la disamina della struttura di un tipico talk-show politico analizzando alcuni elementi di base che ritroviamo praticamente sempre: uno di questi elementi è l'intervista "da strada". L'intervistatore, armato di microfono e seguito dall'operatore con la telecamera, si mette in agguato, "intercetta" il politicante di turno sulla pubblica via e comincia a fargli una serie di domande a raffica sugli argomenti più diversi: nella maggior parte dei casi il personaggio oggetto di tali attenzioni manifesta una decisa contrarietà a questa forma di interazione, a volte manda direttamente a quel paese il giornalista, a volte utilizza un atteggiamento più diplomatico, a volte si trincera nel "no comment", a volte risponde frettolosamente, a volte cerca di sgusciare via, a volte finge la più assoluta indifferenza come se il giornalista non esistesse, e a volte (raramente) capita pure che risponda.
L'intervistatore, peraltro, recita un copione ben preciso costituito generalmente dall'inseguimento (fin quando è possibile) della sua preda, facendo udire "in diretta" il proprio respiro reso affannoso dalla concitazione della corsa; altri elementi importantissimi di questa sceneggiata sono la voce petulante e insistente con cui le domande vengono poste e la scena madre finale in cui la preda sfugge (in genere entra in un edificio in cui l'accesso è impedito al giornalista, oppure entra in macchina e se ne va) lasciando il giornalista con un palmo di naso. La succulenta ciliegina sulla torta, soprattutto nel caso di esponenti politici di primo piano, è quando capita che le guardie del corpo del politicante si interpongano rudemente fra lui e il giornalista, magari spintonando il nostro eroe o mettendogli addirittura le mani addosso.

Ora, che sia tutto finto non si può certamente dire. Ma che sia tutto preparato, questo assolutamente sì. Al conduttore della trasmissione e al giornalista da strada, sia chiaro, non importa una beata mazza del merito delle domande e delle (eventuali) risposte, a loro interessa soltanto che si induca una situazione di tensione e di pathos sul pubblico, il quale andrà istintivamente e immediatamente a prendere le parti di uno dei due protagonisti della suddetta sceneggiata, e questo avverrà a favore dell'uno o dell'altro a seconda che chi sta a casa si chieda "ma perché [il politicante] non risponde? brutto porco!" oppure "ma ti pare normale [per il giornalista] disturbare uno che se ne va tranquillamente per i fatti suoi? brutto stronzo!"

Un altro elemento praticamente comune a tutti i talk-show politici è la dinamica dell'interazione fra gli ospiti in studio appartenenti a diversi schieramenti o a diverse scuole di pensiero: in genere, inizialmente si comincia con un giro di dichiarazioni preliminari molto "soft", in cui ciascuno esprime le proprie posizioni in maniera abbastanza pacata e non si verificano diatribe, interruzioni e botte-e-risposte piccate. L'ambiente si riscalderà solo successivamente, in genere dopo che il conduttore avrà mandato in onda un servizio sul tema del momento: a questo punto gli interventi e i commenti saliranno di tono e di frequente capiterà che, mentre uno parla, il suo interlocutore scuoterà la testa con aria sconcertata o indignata (il classico atteggiamento da "ma che cazzo stai dicendo?") oppure comincerà a interrompere causando la classica reazione "io non ti ho interrotto, quindi ora mi fai parlare", cosa che provocherà nel pubblico a casa l'effetto "curva nord", ovvero l'identificazione partigiane e aprioristica con uno dei due contendenti al di là della validità dei suoi argomenti. 
La trasmissione ora è entrata nel vivo e dunque si può passare al successivo elemento rituale, ovvero il classico sondaggione in stile fantozziano, il quale, lungi dal fornire dati oggettivi su cui articolare la discussione, non farà altro che ingarbugliare ulteriormente le acque.
L'elemento successivo di questo format sarà a questo punto (ammesso che non sia stato già proposto prima) il "servizio-verità" in diretta da qualche piazza o dall'interno dell'abitazione di un qualsiasi signor Rossi, tramite il quale proporre testimonianze in diretta di casi umani molto toccanti. E qui in genere scatta il meccanismo della solidarietà umana nel pubblico, sia in studio sia a casa.
A questo punto stiamo per giungere alla fine della puntata e infatti vediamo che gli ospiti degli opposti schieramenti si lanciano stoccate e si confrontano con aggressività sino a giungere al bailamme finale in cui tutti urlano, nessuno capisce più niente e il conduttore chiude la trasmissione.

Chi ha vinto? semplice: l'ultimo che ha parlato. Saranno sue le parole che il pubblico a casa ricorderà più distintamente.

Chi ha perso? ma noi, ovviamente. Noi che non proviamo alcun piacere nel vederci omologati e trattati come soggetti da drogare e manipolare psicologicamente tramite queste manfrine tutte uguali e tutte inutili.

Il consiglio? leggetevi il giornale. Quello, almeno, sapete quanto lo pagate e magari qualche volta può anche capitarvi di poterlo leggere a scrocco. E la sera, invece di Floris, Paragone e Santoro, leggetevi un buon libro, ascoltate buona musica o guardatevi un bel film. Il telecomando, lasciatelo perdere. Non ne avete bisogno. Riscoprite il gusto di essere persone, e non il pubblico.

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