Bisogna prima di tutto capire di cosa stiamo parlando. Nel nostro immaginario collettivo, la "prima casa" è quella in cui si vive mentre quando si dice "seconda casa" la mente corre a immaginarsi il villino al mare, oppure la baita in montagna, oppure un appartamento dove non ci si vive e che è affittato a terzi rappresentando quindi fonte di lucro.
Peccato che le cose stiano spesso in maniera del tutto diversa.
Una robusta percentuale di italiani, per il nostro sublime sistema catastale e fiscale, possiede - udite udite - la SECONDA casa senza nemmeno essere proprietario della PRIMA.
A prima vista sembrerebbe un controsenso... ma invece è esattamente così.
La spiegazione è semplice quanto kafkiana: per rientrare in questa categoria di sfigati è sufficiente possedere fisicamente UN SOLO immobile ma avere la residenza ad altro indirizzo. E questo è il caso di tanta gente che, pur essendo proprietaria di una abitazione in località X è costretta a spostare la propria residenza in altra località Y per semplici e onestissimi motivi di lavoro.
Oggi, del resto, con la crisi occupazionale che c'è, una situazione di questo tipo è diventata ancora più frequente: i posti fissi sono sempre meno, e pur di lavorare si accetta di tutto, anche trasferirsi in capo al mondo. Bisognerà pur sbarcare il lunario, in qualche modo.
E naturalmente, poiché non stiamo certamente parlando di persone che si possono permettere l'acquisto di una casa nella località in cui hanno trovato lavoro, lavoro che del resto nella maggior parte dei casi sarà a tempo determinato, ne consegue che costoro cercheranno il classico appartamentino in affitto temporaneo, unica soluzione ragionevolmente compatibile con le loro possibilità economiche e con la predominante tipologia di contratto di assunzione.
Altrettanto ovviamente, costoro non prenderanno in considerazione né l'ipotesi di vendere la UNICA casa di cui sono proprietari (magari perché l'hanno semplicemente ereditata dai genitori e per loro ha un valore affettivo inestimabile) nella originaria località X, e né l'ipotesi di darla in affitto, perché sicuramente in quella casa ci sono tutti i loro averi e tutta la storia della loro vita: ne consegue che quella abitazione verrà utilizzata sia come "base logistica" per i periodi in cui si è senza lavoro e sia come "luogo di rilassamento" nei periodi di ferie che non ci si può permettere di passare a Ibiza o ad Acapulco ma che vengono trascorse "accontentandosi" di rivedere parenti e vecchi amici del luogo natìo.
In buona sostanza, quindi, persone che NON PER SCELTA MA SOLO PER NECESSITA' rinunciano a vivere - anche se ne farebbero volentieri a meno - dove hanno le loro radici... ma perseverano nell'ORRENDO CRIMINE di non voler rinunciare a mantenere queste radici. Non facoltosi benestanti, ma gente che prende i 1000-1200 euro al mese facendo l'operaio o l'insegnante precario o altri mestieri similari.
Ecco questa gente, che MAI avrebbe voluto sradicarsi ma che ha - giustamente - accettato di farlo, diventa improvvisamente bersaglio del fisco perché la loro UNICA casa è a tutti gli effetti la SECONDA casa. Essi quindi, lungi dall'usufruire delle esenzioni fiscali previste per la cosiddetta PRIMA casa, vengono assoggettati a balzelli degni dello sceriffo di Nottingham e si accollano, oltre alla sfortuna di dover andare a cercar lavoro altrove (e pagare anche un affitto...), anche l'onere di pagare le tasse anche per coloro che, più fortunati di loro, il lavoro ce l'hanno nella località in cui possiedono l'abitazione e in cui risiedono (senza pagare, naturalmente, alcun affitto, visto che la casa gli appartiene...).
Per non parlare di quelli, naturalmente, che come PRIMA casa hanno la villa con parco e campo da golf.
Ma ora la situazione, per gli sfigati di cui sopra, sembra persino foriera di ulteriori peggioramenti: con l'IMU, costoro pagavano le tasse sulla loro abitazione di proprietà ma NON sull'abitazione in cui vivono in affitto; con la prossima SERVICE TAX (o come diavolo si chiamerà) essi dovranno pagare sia per l'abitazione di proprietà che per quella in cui vivono in affitto.
Una situazione che può diventare persino insostenibile, dal punto di vista economico.
Io francamente sento puzza di bruciato lontano un miglio: vale a dire, poiché l'Italia è una nazione con un debito pubblico spaventoso ma con un debito privato irrilevante, in cui fra l'altro una notevole quota percentuale di cittadini possiede una abitazione, il prossimo passo di coloro che vogliono il fallimento e il definitivo crollo economico di questo "sistema-paese" è andare a intaccare pesantemente proprio la ricchezza dei privati, che come ho già detto è essenzialmente di tipo immobiliare. Ci vogliono sempre più poveri e sempre più zingari, senza radici e senza diritti.
Cui prodest?
giovedì 29 agosto 2013
martedì 27 agosto 2013
Pillole di letteratura: Edgar Allan Poe, il travaglio di uno spirito senza pace.
Angoscia e autodistruzione: queste due parole potrebbero benissimo essere l'epitaffio sulla sua lapide.
Emblematica, a questo proposito, è una sua frase: "E se guarderai a lungo nell'abisso, anche l'abisso vorrà guardare in te." Queste parole rappresentano perfettamente tutto il tormento di un'anima inquieta, un tormento a cui né l'alcool né l'oppio né il laudano seppero porre alcun rimedio ma solo offrirgli rari momenti di oblio accompagnandolo come ombre e fantasmi in tutto il lasso della sua breve esistenza, un'esistenza che ci ha lasciato tracce indelebili di un genio poetico esploso già nell'adolescenza, un genio in cui tuttavia il filo conduttore sembra essere quello della sua stessa vita, ovvero il periodico appuntamento con la Morte che gli porta via gli affetti più cari, a cominciare dai genitori che lo lasciarono orfano in tenerissima età, per continuare poi con il fratello William morto nel 1831 a soli 24 anni.
Ma è soprattutto nell'universo femminile che la Morte imperversa inesorabile prendendo sistematicamente di mira tutte le donne che intersecano il proprio destino con quello di Edgar: la madre Elizabeth muore di sfinimenti e di tubercolosi a soli 24 anni; il suo primo amore, Elena Jane Stannard, madre di un suo amico, muore anch'ella precocemente a soli 31 anni; per lei, subito dopo averla conosciuta ed essersene invaghito, Edgar comporrà versi appassionati:
"La tua bellezza è come quei navigli niceani di un tempo che mollemente, sul profumato mare, riportavano il viandante, stanco d'errare, alla sponda natìa."
("Ad Elena", 1831)
E di richiami crepuscolari e decadenti alla sponda notturna e alla sponda plutoniana della notte come allegoria della Morte sarà pervasa la sua opera poetica più nota, "Il corvo", partorita anch'essa come disperata elegia in memoria di una donna, una figura che alcuni commentatori individuano come la sua madre adottiva Frances Valentine, morta nel 1829, mentre altri sembrano più propensi a riconoscere nell'unica e raggiante fanciulla che gli angeli chiamano Eleonora la giovanissima moglie di Edgar, ovvero la cugina Virginia Clemm, da lui sposata nel 1836 quand'ella era poco meno che quattordicenne e Poe aveva 27 anni.
Ma Virginia morirà di tubercolosi nel 1847, anch'ella a soli 24 anni proprio come la madre di Edgar, mentre "Il corvo" fu pubblicata nel 1845. Non è quindi possibile stabilire alcun nesso eziologico fra quest'opera e la morte di Virginia, a meno che non si avalli l'ipotesi di una sorta di premonizione indotta dalle condizioni di salute mai buone della giovinetta (Virginia era tisica sin da bambina) e progressivamente peggiorate col passar degli anni.
Ma qui siamo nel campo delle mere ipotesi, suggestive finché si vuole ma non avallate da alcun indizio concreto.
Non sembra invece appartenere al campo delle semplici fantasie l'ipotesi che Poe avesse dentro di sé un tormento intimo che lo seguì fin nella tomba e che gli fece cercare non la pace ma l'infelicità terrena: il rapporto con l'amore e con le donne era infatti molto probabilmente condizionato dalla sua impotenza sessuale di carattere sostanzialmente edipico individuata già agli inizi del XX secolo dalla psicoanalista francese Marie Bonaparte. Una significativa frase dello stesso Poe sembra confermare questa ipotesi:
"Io non sono riuscito ad amare che là dove la morte mescolava il suo fiato con quello della bellezza"
Amore, morte e bellezza.
In queste tre parole c'è tutto il destino di Edgar Allan Poe: una vita spesa nella ricerca ossessiva e nell'attesa dell'autodistruzione, come se essa fosse l'unica strada che potesse portarlo a conoscere compiutamente l'amore.
Uno strano destino, quello di uno scrittore che per primo nelle sue opere ha parlato dell'inconscio quando la psicoanalisi era ancora molto di là da venire, ma anche un uomo che è stato a sua volta soggetto ideale per studi psicoanalitici.
Un genio, senza dubbio, e anche un precursore. In lui possiamo in fin dei conti riconoscere i tratti tipici dell'eroe decadente, così come elementi di pura vena romantica. Ma forse il più giusto omaggio che possiamo rendere alla sua memoria è riconoscergli semplicemente di essere stato uno spirito libero.
Amore, morte e bellezza. I tre grandi e insondabili misteri dell'animo umano di fronte ai quali Edgar Allan Poe non si è mai tirato indietro, a costo di consumarvi sé stesso.
lunedì 26 agosto 2013
Goethe e i Rosenkreuzer.
Nelle biografie dei grandi personaggi capita a volte di
imbattersi in episodi e in dettagli virtualmente misconosciuti e nascosti nelle
pieghe del tempo e tuttavia capaci di produrre significativi squarci di luce
sul background in cui essi si sono trovati ad operare. Ogni uomo, conservatore
o innovatore che sia, è sempre e comunque figlio del suo tempo e coloro che si
avvicinano allo studio della storia devono ben tener a mente che è proprio la
decontestualizzazione la principale fonte di mistificazione.
Nel caso di cui voglio parlare ora, abbiamo di fronte una
delle classiche opportunità di illuminazione riguardo un aspetto assolutamente
non secondario del pensiero di Goethe, ovvero la vita che domina e che
avviluppa la morte, un concetto esoterico molto ben ripreso attraverso una
peculiare forma di allegoria nel poema “I misteri”.
Scusandomi per la mia assoluta mancanza della benché minima
dimestichezza con la lingua tedesca e
premettendo quindi che mi baso esclusivamente su una traduzione del testo in
inglese, descrivo per sommi capi la trama di quest’opera purtroppo incompiuta:
il protagonista, frate Marco, durante un suo pellegrinaggio, scopre nel fondo
di una piccola valle nascosta un antico e magnifico monastero il cui portone
d’ingresso è sovrastato da un misterioso emblema che raffigura una croce
contornata da un cerchio di rose, ne resta affascinato e si chiede chi mai
possa aver sposato delle rose a una croce.
Si tratta, ovviamente, di un esplicito richiamo all’antica
Fratellanza dei Cavalieri Rosenkreuzer (i Rosa-Croce), di cui Goethe ben
conosceva i manifesti per causa della sua amicizia con il filosofo Johann
Gottfried Herder, che in gioventù ne era stato un affiliato.
[N.b.: anche per quanto riguarda il contesto in cui si
sviluppa il poema, appare molto probabile che il luogo possa identificarsi con
l’abbazia benedettina di Nostra Signora degli Eremiti (X sec.) a Einsiedeln,
nel cantone svizzero di Schwyz. Per inciso, un posto che si dice valga la pena
di visitare sia pure solo per contemplarvi l’effigie della Vergine Nera.]
Ma tornando alla trama: le perplessità di frate Marco
crescono e si acuiscono con l’imbrunire e quando egli alfine si decide a
bussare alla porta viene accolto da un anziano servitore che, trattandolo più
come un messaggero che come un ospite, lo informa della imminente prossimità
della dipartita del signore del luogo, un cavaliere di nome Humanus che Goethe
tratteggia come dotato di forza erculea e di prodigiosi poteri taumaturgici ma
che in tutta la sua esistenza ha sempre coltivato le virtù dell’obbedienza,
della modestia e della rinunzia.
Si tratta quindi di una figura chiaramente allegorica: egli
è l’eletto, è il santo, una particolare mistica versione di superuomo di cui
l’anziano decanta a lungo e con venerazione le doti spirituali e le prove che
ha saputo affrontare e superare per guadagnarsi il titolo di Cavaliere, proprio
secondo i più classici dettami dei Rosenkreuzer.
Il seguito della trama vede a questo punto frate Marco
entrare nel sagrato del monastero e trovarsi ancora una volta di fronte alla
croce circondata da rami fioriti di rose. Poco dopo, egli si addormenta per
risvegliarsi più innanzi e scorgere nel giardino del chiostro tre giovani
vestiti di bianco, cinti anch’essi da un viluppo di rose e con delle torce in
mano. A questo punto il racconto si interrompe.
Abbiamo tuttavia elementi sufficienti per individuare
evidenti tracce di esoterismo, peraltro non solo in quest’opera: l’influsso
neorosacrociano su Goethe è facilmente riscontrabile anche in tutta
l’architettura stilistica del Faust ma pure in opere minori come il racconto
fiabesco denominato a posteriori “Il serpente verde”. Del resto è noto che
Goethe entrò nella Massoneria, e lo fece non per impulso giovanile ma nel 1780,
a Weimar, quando aveva già superato la soglia dei 30 anni di età.
domenica 25 agosto 2013
Corsi e ricorsi storici.
In questo ultimo languido strascico di fine agosto, in cui ormai solo le testate giornalistiche d'oltre confine sembrano continuare a chiedersi quando mai verranno le forze dell'ordine a bussare alla residenza del Delinquente Bandanato per dare esecuzione a una sentenza di condanna definitiva per frode fiscale, non posso fare a meno di confrontare i protagonisti del presente Ventennio con quelli di quasi un secolo fa: la cronaca di questi ultimi anni ci propone Silvio Berlusconi, Daniela Santanché, Giuliano Ferrara, Sandro Bondi, Massimo D'Alema e Matteo Renzi; i libri di storia ci narrano invece di Giovanni Giolitti, Benito Mussolini, Giovanni Gentile, Gabriele D'Annunzio, Anna Kuliscioff e Benedetto Croce.

Bene, a questo punto potrei già considerare a buon diritto conclusa la questione senza necessità di spendervi ulteriori parole, constatando semplicemente quanto siderale sia la differenza fra lo spessore intellettuale e morale dei rappresentanti delle due epoche a confronto. Tuttavia, essendo la parola una delle poche cose che non ci sono ancora state tolte, mi pregio e mi onoro di continuare a farne uso finché posso.
E sempre in tema di differenze di tempi e di cultura, non posso fare a meno di rimarcare che all'epoca in cui nacque e si sviluppò il fascismo erano in divenire fermenti culturali di notevolissima portata: possiamo sinteticamente citare la crisi di fine ottocento del positivismo, la nascita del decadentismo e della meteora futurista, e naturalmente lo storicismo di matrice crociana.
Queste nuove proposte intellettuali e filosofiche arrivarono a scontrarsi anche ferocemente fra di loro: basti citare la nettissima contrapposizione fra la figura di Gabriele D'Annunzio e quella di Benedetto Croce, il quale - a buona ragione, a mio parere - considerava il suo conterraneo poco più di un imbonitore arruffapopolo e vanesio, precorrendo il giudizio sferzante che di D'Annunzio diede Thomas Mann (non uno qualunque, quindi), che già in "Considerazioni di un impolitico" (1918) scriveva:

«Ma da dove attingo parole per descrivere tutta l’incomprensione, lo stupore, il ribrezzo e disprezzo che provo al cospetto del poeta-politicante e gridatore di guerra tipo Gabriele D’Annunzio? Possibile che un retore e demagogo di questo stampo non rimanga mai solo e stia sempre affacciato al ‘balcone’? Non conosce solitudine, non gli vengono mai dubbi nei propri confronti, ignora la preoccupazione e il tormento per l’anima e per l’opera sua, ignora l’ironia a proposito della gloria, la vergogna dinanzi alla ‘venerazione’? E dire che a casa sua, almeno per un po’ di tempo, è stato preso sul serio, questo buffone d’artista, questo pallone gonfiato avido di ebbrezza! [ … omissis ... ] Chissà, forse un atteggiamento così passivo era possibile solo in un paese rimasto fanciullo, un paese in cui tutto il criticismo demo-politico non impedisce che gli facciano difetto proprio ogni critica e scetticismo in grande stile, un paese insomma che non ha mai avuto una profonda esperienza critica né sul piano razionale né su quello morale e tanto meno su quello dell’arte. Hanno preso sul serio D’Annunzio, la scimmia di Wagner, quell’ambizioso maestro di orge verbali…»
(e già qui, nella pur sempre necessaria contestualizzazione storiografica, una certa assonanza con l'attuale situazione italiana mi pare di riconoscerla...)
Lo stesso Croce, del resto, non la manderà certamente a dire, a D'Annunzio, già nei primi anni del XX secolo, accusandolo esplicitamente di "vuoto esoterismo carismatico", di "falsa profondità", di "falsa bontà" e di "falso eroismo" di cui rimaneva solo il vacuo gesto privo di sostanza e di contenuto. Vedasi a tal proposito il saggio "Gabriele D'Annunzio" (1903), in cui Croce scrive:
«Creare, dominare, essere il padrone, fecondare Roma, la stirpe, le energie occulte, la campagna, la città, la folla o la belva, il dittatore, il segno, la forza, la fede, l'idea; vi à tutto il profilo esterno di una lotta politica, ma la lotta manca. Quel dramma prende talvolta l'aspetto di una pantomima: gesti senza parole, o parole che promettono e annunziano, e non vanno oltre l'annunzio e la promessa.»
Un bluff, insomma. Esattamente come lo stucchevole ritornello "E adesso, avanti con le riforme" tanto caro al Pregiudicato di Arcore.
E a questo punto il confronto con il momento politico attuale si può finalmente chiudere: le parole severe e quasi irridenti di Benedetto Croce nei confronti di Gabriele D'Annunzio potrebbero essere riutilizzate pari pari ai nostri tempi nei confronti del Delinquente Bandanato, fermo restando che, pur rimanendo esclusivamente nell'ambito del mero velleitarismo, non vi è alcuna possibilità di paragone fra i due personaggi, non raggiungendo l'attuale nemmeno un millesimo della statura del suo precursore abruzzese e dell'Uomo Del Destino di cui egli comunque si fece servo silente, a differenza di Croce che da solo seppe non solo resistere al fascismo ma seppe continuare a parlare e sopravvivere ad esso.
Eppure di D'Annunzio molti continuano a sostenere che fu un sublime esempio di "spirito libero".
(e già qui, nella pur sempre necessaria contestualizzazione storiografica, una certa assonanza con l'attuale situazione italiana mi pare di riconoscerla...)
Lo stesso Croce, del resto, non la manderà certamente a dire, a D'Annunzio, già nei primi anni del XX secolo, accusandolo esplicitamente di "vuoto esoterismo carismatico", di "falsa profondità", di "falsa bontà" e di "falso eroismo" di cui rimaneva solo il vacuo gesto privo di sostanza e di contenuto. Vedasi a tal proposito il saggio "Gabriele D'Annunzio" (1903), in cui Croce scrive:
«Creare, dominare, essere il padrone, fecondare Roma, la stirpe, le energie occulte, la campagna, la città, la folla o la belva, il dittatore, il segno, la forza, la fede, l'idea; vi à tutto il profilo esterno di una lotta politica, ma la lotta manca. Quel dramma prende talvolta l'aspetto di una pantomima: gesti senza parole, o parole che promettono e annunziano, e non vanno oltre l'annunzio e la promessa.»
Un bluff, insomma. Esattamente come lo stucchevole ritornello "E adesso, avanti con le riforme" tanto caro al Pregiudicato di Arcore.
E a questo punto il confronto con il momento politico attuale si può finalmente chiudere: le parole severe e quasi irridenti di Benedetto Croce nei confronti di Gabriele D'Annunzio potrebbero essere riutilizzate pari pari ai nostri tempi nei confronti del Delinquente Bandanato, fermo restando che, pur rimanendo esclusivamente nell'ambito del mero velleitarismo, non vi è alcuna possibilità di paragone fra i due personaggi, non raggiungendo l'attuale nemmeno un millesimo della statura del suo precursore abruzzese e dell'Uomo Del Destino di cui egli comunque si fece servo silente, a differenza di Croce che da solo seppe non solo resistere al fascismo ma seppe continuare a parlare e sopravvivere ad esso.
Eppure di D'Annunzio molti continuano a sostenere che fu un sublime esempio di "spirito libero".
Ma questa è una lettura romantica e superficiale.
La libertà cui egli aspirava non era in fin dei conti molto dissimile da come è sempre stata intesa dal Delinquente di Arcore e dai suoi servi sciocchi: libertà non di essere ma di fare, qualcosa che con lo spirito non ha proprio nulla a che fare ma che invece ha molto più a vedere con una forma immiserita e deviata di libertinaggio, che dall'originaria nobilissima vocazione a rompere gli schemi e a dare una nuova chiave di lettura delle relazioni umane, così come proposta dagli illustri rappresentanti di questa corrente di pensiero fra il XVI e il XVII sec., si limita a farsi atteggiamento utilitaristico e strumentale finalizzato essenzialmente a soddisfare le proprie passioni, cosa di cui ci dà ampia conferma la cronaca degli ultimi anni di vita del Vate, così come testimoniati dal prof. Emilio Mariano, nella sua veste di curatore postbellico del Vittoriale e di custode del carteggio e delle memorie dannunziane: anni, gli ultimi, che il Vate passò nella palinodia del suo passato e pur tuttavia sempre caratterizzati da un miscuglio di erotomania e satiriasi che ormai lo portava a ricevere le sue amanti senza nemmeno svestirsi a causa della vergogna che provava per il suo decadimento fisico.
D'Annunzio, quindi, lungi dall'essere un innovatore intellettuale, in concreto si limitò semplicemente a copiare manieristicamente figure come Théophile de Viaux, Giordano Bruno, Donatien-Alphonse-François De Sade, Anne "Ninon" de Lenclos e Etienne Dolet, personaggi che però pagarono con l'ostracismo, la persecuzione o anche con il rogo le loro scelte di vita: mentre ai tempi di D'Annunzio non vi era alcun Paolo IV che ne mettesse le opere all'indice e che ne ordinasse il bando o l'inquisizione.
Vero e puro spirito libero, invece, fu un altro contemporaneo di D'Annunzio nonché suo compagno d'arme nell'avventura di Fiume, quell'Ettore Muti che lo stesso D'Annunzio, dopo averlo conosciuto e ammirato, ebbe a chiamare "Gim dagli occhi verdi".

Rinunciando in questa sede alla biografia del personaggio, per la quale facilmente rimando a Wikipedia, sottolineo soltanto che Muti è a tutt'oggi l'aviatore che detiene il record a livello mondiale di ore di volo in guerra ed è il militare italiano più decorato in assoluto.
Al di là delle valutazioni, che esulano da questo contesto, sulle scelte e sulle posizioni politiche di Muti in quanto fascista e squadrista della prima ora, vorrei semplicemente rilevare che egli non ebbe mai ad accettare alcun compromesso con la sua coscienza e con il suo orgoglio, giungendo a rendersi inviso ai palazzi della politica e ai gerarchi del partito: non abbassò la testa nemmeno di fronte a Mussolini, al quale era uno dei pochi che dava del tu senza tante cerimonie, e non rinnegò mai le sue scelte di uomo d'azione e non di retroguardia o addirittura di scrivania, arrivando a inimicarsi lo stesso Galeazzo Ciano che lo aveva portato alla carica di segretario del partito fascista, carica che lascia volontariamente dopo poco più di un anno per tornare a combattere, reputandosi affatto portato per maneggiar scartoffie.
Ecco, per tornare all'arida cronaca dei tempi che viviamo, mi riesce oltremodo difficile individuarvi un qualsiasi personaggio che possa accostarsi in qualche modo alla dirittura morale e all'integrità di Ettore Muti; gli ultimi, come ben sappiamo, ce li hanno fatti fuori parecchi anni fa e non se ne trovano ancora sostituti all'altezza: e parlo di Enrico Mattei, di Carlo Alberto Della Chiesa, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino.
Ma questa, come si suol dire, è un'altra storia. Perché se Della Chiesa, Falcone e Borsellino appartengono essenzialmente alla storia italiana, la vicenda di Enrico Mattei si inquadra in un panorama ben più ampio, quello della globalizzazione.
D'Annunzio, quindi, lungi dall'essere un innovatore intellettuale, in concreto si limitò semplicemente a copiare manieristicamente figure come Théophile de Viaux, Giordano Bruno, Donatien-Alphonse-François De Sade, Anne "Ninon" de Lenclos e Etienne Dolet, personaggi che però pagarono con l'ostracismo, la persecuzione o anche con il rogo le loro scelte di vita: mentre ai tempi di D'Annunzio non vi era alcun Paolo IV che ne mettesse le opere all'indice e che ne ordinasse il bando o l'inquisizione.
Vero e puro spirito libero, invece, fu un altro contemporaneo di D'Annunzio nonché suo compagno d'arme nell'avventura di Fiume, quell'Ettore Muti che lo stesso D'Annunzio, dopo averlo conosciuto e ammirato, ebbe a chiamare "Gim dagli occhi verdi".

Rinunciando in questa sede alla biografia del personaggio, per la quale facilmente rimando a Wikipedia, sottolineo soltanto che Muti è a tutt'oggi l'aviatore che detiene il record a livello mondiale di ore di volo in guerra ed è il militare italiano più decorato in assoluto.
Al di là delle valutazioni, che esulano da questo contesto, sulle scelte e sulle posizioni politiche di Muti in quanto fascista e squadrista della prima ora, vorrei semplicemente rilevare che egli non ebbe mai ad accettare alcun compromesso con la sua coscienza e con il suo orgoglio, giungendo a rendersi inviso ai palazzi della politica e ai gerarchi del partito: non abbassò la testa nemmeno di fronte a Mussolini, al quale era uno dei pochi che dava del tu senza tante cerimonie, e non rinnegò mai le sue scelte di uomo d'azione e non di retroguardia o addirittura di scrivania, arrivando a inimicarsi lo stesso Galeazzo Ciano che lo aveva portato alla carica di segretario del partito fascista, carica che lascia volontariamente dopo poco più di un anno per tornare a combattere, reputandosi affatto portato per maneggiar scartoffie.
Ecco, per tornare all'arida cronaca dei tempi che viviamo, mi riesce oltremodo difficile individuarvi un qualsiasi personaggio che possa accostarsi in qualche modo alla dirittura morale e all'integrità di Ettore Muti; gli ultimi, come ben sappiamo, ce li hanno fatti fuori parecchi anni fa e non se ne trovano ancora sostituti all'altezza: e parlo di Enrico Mattei, di Carlo Alberto Della Chiesa, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino.
Ma questa, come si suol dire, è un'altra storia. Perché se Della Chiesa, Falcone e Borsellino appartengono essenzialmente alla storia italiana, la vicenda di Enrico Mattei si inquadra in un panorama ben più ampio, quello della globalizzazione.
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