In questo ultimo languido strascico di fine agosto, in cui ormai solo le testate giornalistiche d'oltre confine sembrano continuare a chiedersi quando mai verranno le forze dell'ordine a bussare alla residenza del Delinquente Bandanato per dare esecuzione a una sentenza di condanna definitiva per frode fiscale, non posso fare a meno di confrontare i protagonisti del presente Ventennio con quelli di quasi un secolo fa: la cronaca di questi ultimi anni ci propone Silvio Berlusconi, Daniela Santanché, Giuliano Ferrara, Sandro Bondi, Massimo D'Alema e Matteo Renzi; i libri di storia ci narrano invece di Giovanni Giolitti, Benito Mussolini, Giovanni Gentile, Gabriele D'Annunzio, Anna Kuliscioff e Benedetto Croce.

Bene, a questo punto potrei già considerare a buon diritto conclusa la questione senza necessità di spendervi ulteriori parole, constatando semplicemente quanto siderale sia la differenza fra lo spessore intellettuale e morale dei rappresentanti delle due epoche a confronto. Tuttavia, essendo la parola una delle poche cose che non ci sono ancora state tolte, mi pregio e mi onoro di continuare a farne uso finché posso.
E sempre in tema di differenze di tempi e di cultura, non posso fare a meno di rimarcare che all'epoca in cui nacque e si sviluppò il fascismo erano in divenire fermenti culturali di notevolissima portata: possiamo sinteticamente citare la crisi di fine ottocento del positivismo, la nascita del decadentismo e della meteora futurista, e naturalmente lo storicismo di matrice crociana.
Queste nuove proposte intellettuali e filosofiche arrivarono a scontrarsi anche ferocemente fra di loro: basti citare la nettissima contrapposizione fra la figura di Gabriele D'Annunzio e quella di Benedetto Croce, il quale - a buona ragione, a mio parere - considerava il suo conterraneo poco più di un imbonitore arruffapopolo e vanesio, precorrendo il giudizio sferzante che di D'Annunzio diede Thomas Mann (non uno qualunque, quindi), che già in "Considerazioni di un impolitico" (1918) scriveva:

«Ma da dove attingo parole per descrivere tutta l’incomprensione, lo stupore, il ribrezzo e disprezzo che provo al cospetto del poeta-politicante e gridatore di guerra tipo Gabriele D’Annunzio? Possibile che un retore e demagogo di questo stampo non rimanga mai solo e stia sempre affacciato al ‘balcone’? Non conosce solitudine, non gli vengono mai dubbi nei propri confronti, ignora la preoccupazione e il tormento per l’anima e per l’opera sua, ignora l’ironia a proposito della gloria, la vergogna dinanzi alla ‘venerazione’? E dire che a casa sua, almeno per un po’ di tempo, è stato preso sul serio, questo buffone d’artista, questo pallone gonfiato avido di ebbrezza! [ … omissis ... ] Chissà, forse un atteggiamento così passivo era possibile solo in un paese rimasto fanciullo, un paese in cui tutto il criticismo demo-politico non impedisce che gli facciano difetto proprio ogni critica e scetticismo in grande stile, un paese insomma che non ha mai avuto una profonda esperienza critica né sul piano razionale né su quello morale e tanto meno su quello dell’arte. Hanno preso sul serio D’Annunzio, la scimmia di Wagner, quell’ambizioso maestro di orge verbali…»
(e già qui, nella pur sempre necessaria contestualizzazione storiografica, una certa assonanza con l'attuale situazione italiana mi pare di riconoscerla...)
Lo stesso Croce, del resto, non la manderà certamente a dire, a D'Annunzio, già nei primi anni del XX secolo, accusandolo esplicitamente di "vuoto esoterismo carismatico", di "falsa profondità", di "falsa bontà" e di "falso eroismo" di cui rimaneva solo il vacuo gesto privo di sostanza e di contenuto. Vedasi a tal proposito il saggio "Gabriele D'Annunzio" (1903), in cui Croce scrive:
«Creare, dominare, essere il padrone, fecondare Roma, la stirpe, le energie occulte, la campagna, la città, la folla o la belva, il dittatore, il segno, la forza, la fede, l'idea; vi à tutto il profilo esterno di una lotta politica, ma la lotta manca. Quel dramma prende talvolta l'aspetto di una pantomima: gesti senza parole, o parole che promettono e annunziano, e non vanno oltre l'annunzio e la promessa.»
Un bluff, insomma. Esattamente come lo stucchevole ritornello "E adesso, avanti con le riforme" tanto caro al Pregiudicato di Arcore.
E a questo punto il confronto con il momento politico attuale si può finalmente chiudere: le parole severe e quasi irridenti di Benedetto Croce nei confronti di Gabriele D'Annunzio potrebbero essere riutilizzate pari pari ai nostri tempi nei confronti del Delinquente Bandanato, fermo restando che, pur rimanendo esclusivamente nell'ambito del mero velleitarismo, non vi è alcuna possibilità di paragone fra i due personaggi, non raggiungendo l'attuale nemmeno un millesimo della statura del suo precursore abruzzese e dell'Uomo Del Destino di cui egli comunque si fece servo silente, a differenza di Croce che da solo seppe non solo resistere al fascismo ma seppe continuare a parlare e sopravvivere ad esso.
Eppure di D'Annunzio molti continuano a sostenere che fu un sublime esempio di "spirito libero".
(e già qui, nella pur sempre necessaria contestualizzazione storiografica, una certa assonanza con l'attuale situazione italiana mi pare di riconoscerla...)
Lo stesso Croce, del resto, non la manderà certamente a dire, a D'Annunzio, già nei primi anni del XX secolo, accusandolo esplicitamente di "vuoto esoterismo carismatico", di "falsa profondità", di "falsa bontà" e di "falso eroismo" di cui rimaneva solo il vacuo gesto privo di sostanza e di contenuto. Vedasi a tal proposito il saggio "Gabriele D'Annunzio" (1903), in cui Croce scrive:
«Creare, dominare, essere il padrone, fecondare Roma, la stirpe, le energie occulte, la campagna, la città, la folla o la belva, il dittatore, il segno, la forza, la fede, l'idea; vi à tutto il profilo esterno di una lotta politica, ma la lotta manca. Quel dramma prende talvolta l'aspetto di una pantomima: gesti senza parole, o parole che promettono e annunziano, e non vanno oltre l'annunzio e la promessa.»
Un bluff, insomma. Esattamente come lo stucchevole ritornello "E adesso, avanti con le riforme" tanto caro al Pregiudicato di Arcore.
E a questo punto il confronto con il momento politico attuale si può finalmente chiudere: le parole severe e quasi irridenti di Benedetto Croce nei confronti di Gabriele D'Annunzio potrebbero essere riutilizzate pari pari ai nostri tempi nei confronti del Delinquente Bandanato, fermo restando che, pur rimanendo esclusivamente nell'ambito del mero velleitarismo, non vi è alcuna possibilità di paragone fra i due personaggi, non raggiungendo l'attuale nemmeno un millesimo della statura del suo precursore abruzzese e dell'Uomo Del Destino di cui egli comunque si fece servo silente, a differenza di Croce che da solo seppe non solo resistere al fascismo ma seppe continuare a parlare e sopravvivere ad esso.
Eppure di D'Annunzio molti continuano a sostenere che fu un sublime esempio di "spirito libero".
Ma questa è una lettura romantica e superficiale.
La libertà cui egli aspirava non era in fin dei conti molto dissimile da come è sempre stata intesa dal Delinquente di Arcore e dai suoi servi sciocchi: libertà non di essere ma di fare, qualcosa che con lo spirito non ha proprio nulla a che fare ma che invece ha molto più a vedere con una forma immiserita e deviata di libertinaggio, che dall'originaria nobilissima vocazione a rompere gli schemi e a dare una nuova chiave di lettura delle relazioni umane, così come proposta dagli illustri rappresentanti di questa corrente di pensiero fra il XVI e il XVII sec., si limita a farsi atteggiamento utilitaristico e strumentale finalizzato essenzialmente a soddisfare le proprie passioni, cosa di cui ci dà ampia conferma la cronaca degli ultimi anni di vita del Vate, così come testimoniati dal prof. Emilio Mariano, nella sua veste di curatore postbellico del Vittoriale e di custode del carteggio e delle memorie dannunziane: anni, gli ultimi, che il Vate passò nella palinodia del suo passato e pur tuttavia sempre caratterizzati da un miscuglio di erotomania e satiriasi che ormai lo portava a ricevere le sue amanti senza nemmeno svestirsi a causa della vergogna che provava per il suo decadimento fisico.
D'Annunzio, quindi, lungi dall'essere un innovatore intellettuale, in concreto si limitò semplicemente a copiare manieristicamente figure come Théophile de Viaux, Giordano Bruno, Donatien-Alphonse-François De Sade, Anne "Ninon" de Lenclos e Etienne Dolet, personaggi che però pagarono con l'ostracismo, la persecuzione o anche con il rogo le loro scelte di vita: mentre ai tempi di D'Annunzio non vi era alcun Paolo IV che ne mettesse le opere all'indice e che ne ordinasse il bando o l'inquisizione.
Vero e puro spirito libero, invece, fu un altro contemporaneo di D'Annunzio nonché suo compagno d'arme nell'avventura di Fiume, quell'Ettore Muti che lo stesso D'Annunzio, dopo averlo conosciuto e ammirato, ebbe a chiamare "Gim dagli occhi verdi".

Rinunciando in questa sede alla biografia del personaggio, per la quale facilmente rimando a Wikipedia, sottolineo soltanto che Muti è a tutt'oggi l'aviatore che detiene il record a livello mondiale di ore di volo in guerra ed è il militare italiano più decorato in assoluto.
Al di là delle valutazioni, che esulano da questo contesto, sulle scelte e sulle posizioni politiche di Muti in quanto fascista e squadrista della prima ora, vorrei semplicemente rilevare che egli non ebbe mai ad accettare alcun compromesso con la sua coscienza e con il suo orgoglio, giungendo a rendersi inviso ai palazzi della politica e ai gerarchi del partito: non abbassò la testa nemmeno di fronte a Mussolini, al quale era uno dei pochi che dava del tu senza tante cerimonie, e non rinnegò mai le sue scelte di uomo d'azione e non di retroguardia o addirittura di scrivania, arrivando a inimicarsi lo stesso Galeazzo Ciano che lo aveva portato alla carica di segretario del partito fascista, carica che lascia volontariamente dopo poco più di un anno per tornare a combattere, reputandosi affatto portato per maneggiar scartoffie.
Ecco, per tornare all'arida cronaca dei tempi che viviamo, mi riesce oltremodo difficile individuarvi un qualsiasi personaggio che possa accostarsi in qualche modo alla dirittura morale e all'integrità di Ettore Muti; gli ultimi, come ben sappiamo, ce li hanno fatti fuori parecchi anni fa e non se ne trovano ancora sostituti all'altezza: e parlo di Enrico Mattei, di Carlo Alberto Della Chiesa, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino.
Ma questa, come si suol dire, è un'altra storia. Perché se Della Chiesa, Falcone e Borsellino appartengono essenzialmente alla storia italiana, la vicenda di Enrico Mattei si inquadra in un panorama ben più ampio, quello della globalizzazione.
D'Annunzio, quindi, lungi dall'essere un innovatore intellettuale, in concreto si limitò semplicemente a copiare manieristicamente figure come Théophile de Viaux, Giordano Bruno, Donatien-Alphonse-François De Sade, Anne "Ninon" de Lenclos e Etienne Dolet, personaggi che però pagarono con l'ostracismo, la persecuzione o anche con il rogo le loro scelte di vita: mentre ai tempi di D'Annunzio non vi era alcun Paolo IV che ne mettesse le opere all'indice e che ne ordinasse il bando o l'inquisizione.
Vero e puro spirito libero, invece, fu un altro contemporaneo di D'Annunzio nonché suo compagno d'arme nell'avventura di Fiume, quell'Ettore Muti che lo stesso D'Annunzio, dopo averlo conosciuto e ammirato, ebbe a chiamare "Gim dagli occhi verdi".

Rinunciando in questa sede alla biografia del personaggio, per la quale facilmente rimando a Wikipedia, sottolineo soltanto che Muti è a tutt'oggi l'aviatore che detiene il record a livello mondiale di ore di volo in guerra ed è il militare italiano più decorato in assoluto.
Al di là delle valutazioni, che esulano da questo contesto, sulle scelte e sulle posizioni politiche di Muti in quanto fascista e squadrista della prima ora, vorrei semplicemente rilevare che egli non ebbe mai ad accettare alcun compromesso con la sua coscienza e con il suo orgoglio, giungendo a rendersi inviso ai palazzi della politica e ai gerarchi del partito: non abbassò la testa nemmeno di fronte a Mussolini, al quale era uno dei pochi che dava del tu senza tante cerimonie, e non rinnegò mai le sue scelte di uomo d'azione e non di retroguardia o addirittura di scrivania, arrivando a inimicarsi lo stesso Galeazzo Ciano che lo aveva portato alla carica di segretario del partito fascista, carica che lascia volontariamente dopo poco più di un anno per tornare a combattere, reputandosi affatto portato per maneggiar scartoffie.
Ecco, per tornare all'arida cronaca dei tempi che viviamo, mi riesce oltremodo difficile individuarvi un qualsiasi personaggio che possa accostarsi in qualche modo alla dirittura morale e all'integrità di Ettore Muti; gli ultimi, come ben sappiamo, ce li hanno fatti fuori parecchi anni fa e non se ne trovano ancora sostituti all'altezza: e parlo di Enrico Mattei, di Carlo Alberto Della Chiesa, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino.
Ma questa, come si suol dire, è un'altra storia. Perché se Della Chiesa, Falcone e Borsellino appartengono essenzialmente alla storia italiana, la vicenda di Enrico Mattei si inquadra in un panorama ben più ampio, quello della globalizzazione.
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