martedì 26 novembre 2013

Micaela Biancofiore e la legge del più forte


Non mi è piaciuta affatto questa affermazione di Micaela Biancofiore, sia pure fatta con forte veemenza polemica in un momento particolarmente caldo di una discussione in cui si metteva all'indice il referente politico storico della signora in questione.

Non mi è piaciuta, non solo per il merito della posizione espressa ma anche perché avveniva nella "giornata mondiale contro la violenza sulle donne", ove per violenza deve intendersi ogni forma di attacco alla dignità del genere femminile.
E non possiamo negare che sia particolarmente stridente con il rispetto della dignità delle donne l'affermare che un comportamento di tipo meramente utilitaristico possa essere talmente diffuso fra il genere femminile da poter essere considerato proprio come peculiarità caratteristica del gentil sesso.
In pratica, è come affermare che tutte le donne sarebbero disposte a concedersi all'uomo ricco e potente, facendo sostanzialmente mercimonio di corpo e anima... salvo prova contraria.
In altre parole, si ritorna allo stereotipo femminile di stampo veteromaschilista perfettamente descritto in una frase che sarebbe stata benissimo sulla bocca di Mimì metallurgico in un ipotetico film di Lina Wertmuller, una frase che suonerebbe più o meno così:
"Tutte le donne sono bottane, tranne mia madre, mia moglie, mia figlia e mia sorella"
Ora, se ci divertissimo ad analizzarla con gli strumenti della logica booleana, cioè in termini di true o false, una simile proposizione assumerebbe sempre e comunque il valore false: infatti, secondo le regole dell'algebra di Boole, per affermare che una proposizione assume sempre il valore false è sufficiente dimostrare che fra tutti i possibili casi in cui essa viene applicata ve ne è almeno uno in cui si riscontra che essa è false; viceversa, essa potrebbe essere definita come true se e solo se si potesse dimostrare che in nessun caso potrebbe assumere il valore di false. Cosa evidentemente impossibile nel caso di specie, a meno che alla proposizione in questione non venga conferito valore di assioma. Ma in tal caso si uscirebbe dall'ambito dell'algebra di Boole così come noi la conosciamo.

Quindi, a rigor di logica, la frase in questione è una solenne sciocchezza, una fesseria priva di valore.

Ma sappiamo bene che la matematica è uno strumento che non si può applicare utilmente allo studio della psicologia e del comportamento umano: in questi campi il supporto più concreto viene dalla statistica, strumento tanto più efficace quanto più ampio è il campione studiato, ovvero quando si entra nel campo della sociologia e si studiano le masse.
Ora, con tutto il rispetto per l'esperienza di vita della signora Micaela Biancofiore, ho ben più di un dubbio sul fatto che ella abbia potuto dire ciò che ha detto avendo potuto disporre di un campione statistico sufficientemente ampio da studiare. Ma ammesso e non concesso, ho ancora più dubbi sul fatto che ella abbia applicato le metodiche dell'indagine statistica per giungere alla conclusione che ci ha così chiaramente illustrato.
La statistica, infatti, non è un passatempo per giornate amene e nemmeno un surrogato dell'astrologia o della cartomanzia da salotto o da baraccone: la statistica è un metodo di indagine e di conoscenza che fa uso di strumenti matematici non propriamente for dummies e ci aspettiamo quindi che la signora Biancofiore ci renda edotti di quali siano gli studi a supporto delle sue affermazioni circa la prevedibilità del comportamento delle donne quando esse si trovano al cospetto di un uomo ricco e potente.

Rimanendo in attesa che la signora Biancofiore pubblichi quanto richiesto, vorrei però sottolineare che la sua affermazione contiene un sostanziale fondo di verità, nel senso che, se è vero che non si può assolutamente quantificarne a priori la percentuale, è altrettanto vero che sono sempre esistiti - e probabilmente continueranno a esistere anche in futuro - casi in cui la donna si comporta esattamente come descritto dalla signora Biancofiore, di cui non sarebbe corretto disconoscere a priori la testimonianza riguardo gli episodi a cui ella stessa ha affermato di aver assistito, episodi che riguardavano sia giovanette sia signore più mature colte letteralmente da mistico visibilio quando si sono trovate al cospetto di Silvio Berlusconi.

Io stesso, a dire il vero, posso affermare di essere stato più volte testimone di diversi casi simili, nell'arco della mia esistenza. Ovviamente non compio l'errore di generalizzare, non essendo in alcun modo le mie esperienze personali suscettibili di assumere valore statistico in merito al comportamento di tutto il genere femminile.
Sicuramente, a volte mi sono trovato di fronte a vere e proprie zoccole (mi si perdoni il termine, tanto volgare quanto efficace), altre volte di fronte a stronzestronzette, altre volte ancora semplicemente a ipocrite, e in più di un caso anche di fronte a povere sciocchine. Ma questo ci sta, il mondo è bello perché è vario, e del resto sono anche assolutamente certo che ogni donna potrebbe parimenti esibirsi in enumerazioni, assolutamente degne della massima fede, di soggetti maschili descrivibili con i peggiori epiteti, fra i quali primeggerebbero sicuramente gli aggettivi porco, stronzo e egoista.

Ma lasciamo perdere il raffinato eloquio di Oxford e dei suoi dintorni, perché a questo punto, con spirito del tutto disincantato, vorrei in qualche modo cercare di comprendere quale sia storicamente l'origine di comportamenti che oggi, nella nostra società teoricamente civile e comunque strutturata, non vengono certamente valutati in modo positivo dal punto di vista etico.
Ebbene, se guardiamo agli albori della storia umana, quando di una qualsiasi forma di patto sociale non vi era nemmeno l'ombra e ogni interazione non apertamente conflittuale si circoscriveva esclusivamente nel ristretto ambito della tribù, dobbiamo tener presente che l'unica "legge" vigente e riconosciuta era quella del più forte. Si capisce bene, quindi, come la donna, a cui era assegnato il compito della riproduzione e del lavoro "domestico", avesse tutto l'interesse ad accaparrarsi un partner sano e robusto o addirittura il maschio alfa, che certamente avrebbe potuto garantire - a lei e alla sua prole - maggiore protezione e tutela nei confronti delle avversità della vita.


In una simile prospettiva di mera sopravvivenza in un ambiente pieno di incertezze e di pericoli, ciò che oggi valutiamo con palese disapprovazione era invece da considerarsi a tutti gli effetti come primaria regola di vita, tanto primaria da assurgere a vero e proprio modello etico. E' chiaro che, con il passar del tempo e con l'evolversi della società verso forme caratterizzate dalla comparsa di leggi e persino di diritti, la necessità di cercare protezione e tutela in una persona piuttosto che in un insieme di regole si è andata inevitabilmente affievolendo sempre di più, tuttavia credo che questo resti come istinto ancestrale correlato all'idea stessa della sopravvivenza e quindi non eliminabile anche se - ovviamente - sempre meno giustificabile.

Stesso discorso, se vogliamo, si potrebbe fare in campo maschile per quanto riguarda una delle più tipiche manifestazioni della istintualità di genere, ovvero la gelosia, e la sua deriva più disgustosa e deteriore, ovvero il considerare la donna come una sua mera proprietà. Anche in questo caso, le origini di tale comportamento vanno fatte risalire alle epoche in cui era preciso dovere del maschio assicurare la massima protezione alla sua femmina: doveva difenderla da altri maschi che si mettevano in competizione con lui, dai predatori e da una lunga serie di pericoli di ogni tipo: ovviamente, possedere il giusto mix di astuzia (se nel caso) e di forza bruta (prima di tutto) era indispensabile per ottenere questo risultato, e da ciò derivava la territorialità in cui venivano compresi non solo i suoi beni ma anche la sua femmina e la sua prole, che, nei limiti del possibile, non dovevano venire a contatto con estranei o comunque con elementi esterni al gruppo familiare o alla tribù.

A questo punto, però, preso semplicemente atto delle ragioni storiche di determinati comportamenti sociali, qualcuno potrebbe chiedermi quando mi deciderò a parlare di un altro elemento chiave nelle dinamiche di coppia, ovvero l'amore.

Beh, non credo che questo contesto sia adeguato per parlare di amore.

Al limite, ma proprio al limite, e solo per strappare qualche timido applauso (maschile) o qualche sorrisetto ironico e un po' sprezzante (femminile) potrei banalmente cavarmela con un aforisma di Cesare Pavese:

"Nessuna donna farebbe mai un matrimonio di interesse: prima di sposare un miliardario, se ne innamora."

lunedì 25 novembre 2013

Il mostro a tre teste

La mafia, la camorra e la 'ndrangheta sono le organizzazioni criminali più conosciute del pianeta, anche se non le più antiche.

Come abbiamo già visto nel precedente articolo, queste entità spietate e sanguinarie si sono caratterizzate sin dalla loro nascita per una rigorosissima gerarchia, per un preciso codice d'onore e per un vincolo di obbedienza che non si riscontra in altre similari associazioni a delinquere nate in Italia (per esempio, la cosiddetta "mala del Brenta" veneta o la più nota "Sacra Corona Unita" pugliese) o anche all'estero (la Yakuza giapponese, nata come fenomeno collaterale allo shogunato, o i ring criminali nordamericani del XIX secolo, che erano essenzialmente cupole affaristiche cittadine).

Altra peculiare caratteristica delle onorate società è sempre stata, sin dall'inizio, quella particolare forma di segretezza che ne coinvolgeva la gerarchia ai massimi livelli e che comportava (e stimolava a bella posta) la nascita di vere e proprie leggende popolari sia riguardo le figure dei capi sia riguardo l'esistenza stessa dell'organizzazione, ma che invece rimaneva solo come mera formalità - una sorta di segreto di Pulcinella - per quanto riguarda la base degli affiliati, i quali traevano proprio dalla divulgazione del proprio status di picciotto o di uomo d'onore il prestigio necessario per ottenere dal popolino rispetto e timore. Per trovare in epoche precedenti una qualificazione riconosciuta e rispettata in pari grado, bisogna risalire alla Roma antica e all'orgoglio di potersi etichettare con la dizione: "civis romanus sum". Un vero onore, a quei tempi.

E l'onore, se vogliamo, è elemento costante nelle onorate società sin dalle leggende che ne accompagnano la nascita: la tradizione popolare vuole infatti che mafia, camorra e 'ndrangheta venissero create in Italia da tre fratelli di origine spagnola, Osso, Mastrosso e Scarcagnosso, i quali avevano dovuto abbandonare la città di Madrid proprio per sfuggire al disonore di non aver potuto lavare col sangue l'onta di una loro sorella sedotta e svergognata da un nobile principe del posto. Nel loro peregrinare, i tre fratelli giunsero alfine in Italia facendo tappa prima a Napoli, ove Mastrosso si fermò e fondò la camorra, per poi proseguire verso la Calabria, ove Scarcagnosso si stabilì e diede vita alla 'ndrangheta, e terminare il viaggio in Sicilia, ove Osso prese dimora e creò la mafia.
Ma ora, fatta la necessaria tara alle favole e ai miti, è comunque interessante interrogarsi sul motivo della nascita di queste sette proprio nell'Italia meridionale: per rispondere al quesito, è necessario determinare quali fossero gli elementi eziogenici comuni a tutte e tre le aree geografiche di elezione, nonché quali fossero le differenziazioni rispetto ad altre zone della penisola. Un fattore comune consiste senza dubbio nel fatto che nel Meridione albergasse, nel XVIII e nel XIX secolo, una economia essenzialmente agricola basata sul latifondo, mentre nell'Italia centro-settentrionale il tessuto economico aveva maggiore caratterizzazione industriale e commerciale. Se quindi nel Settentrione i centri di potere erano essenzialmente le banche, nel Meridione tali centri erano rappresentati dalle famiglie dell'aristocrazia. A questo punto, però, si innesta la diatriba fra i sostenitori della teoria della nascita delle mafie come elemento di controllo e di soggezione della popolazione da parte dei potenti, e i sostenitori della teoria per cui le mafie nacquero proprio come associazioni segrete di mutuo soccorso finalizzate all'opposizione armata all'aristocrazia. E' ragionevole presupporre che la verità stia nel mezzo: una società segreta, per sua natura, nasce per opporsi al potere costituito, e comunque non può avere il tempo di crescere e di radicarsi senza il presupposto del consenso popolare; d'altro canto, è altrettanto facile immaginare come sia facile, per un'organizzazione che abbia raggiunto una sua stabilità strutturale sul territorio, scendere a patti col potere e farsene braccio armato piuttosto che far saltare il banco e ripiombare nell'incertezza e nell'instabilità.

A tal proposito, non può essere sottovalutato anche il fattore religioso: se è vero che la triade delle organizzazioni mafiose ha stabilito sin dalla sua origine un forte e consolidato legame simbolico con il cattolicesimo (se ne ha riscontro nella terminologia gergale, nei "santi protettori" delle cosche, nella ritualità generale), è anche vero che questo legame si è anche troppo spesso concretizzato attraverso un sodalizio con elementi o settori deviati o permeabili del clero cattolico. E non poteva essere altrimenti, considerando che nel Meridione italiano la penetrazione del sentimento religioso e il rispetto, spesso anche il timore, per la gerarchia ecclesiastica è un elemento storicamente molto più presente e più costante che nel nord della penisola, ove sono stati la politica e i giochi di potere l'elemento che ha avuto più peso nel rapporto fra la Chiesa e la popolazione. Dovevano quindi, le organizzazioni mafiose, o mettersi in contrasto con la Chiesa oppure scendervi a patti e mettere a frutto ciò che di vantaggioso poteva portare questo patto scellerato.

Ma di questo mi riservo di parlare più approfonditamente in futuro.

venerdì 22 novembre 2013

Il dovere di saper rinunciare

http://www.visiogeist.com/blog/item/la-camicia-da-notte-bianca-di-berlusconi


Non essendo (o quanto meno, non ritenendomi) un bigotto, confermo di non provare alcun particolare fastidio nei confronti di chi, essendo sufficientemente facoltoso, si circonda di persone attraenti e disponibili dietro compenso a soddisfare le sue voglie.

Chiariamo che in questo caso non si tratta di persone che subiscono il cosiddetto "magnetismo del potere" o che per altri motivi di carattere non venale decidono liberamente di concedere la propria compagnia o anche il proprio corpo a un personaggio di cui subiscono il fascino: la storia e la cronaca sono pieni di casi del genere, e sarebbe facilissimo fare un milione esempi di seduttori o seduttrici delle tipologie più diverse, che nell'arco della loro vita, o in un determinato periodo di essa, hanno goduto dei favori dell'altro sesso o anche del proprio, a seconda dei gusti. In campo maschile potrei citare Rodolfo Valentino, una delle icone cinematografiche della bellezza maschile, potrei citare Gabriele D'Annunzio, mito culturale e intellettuale del primo Novecento, potrei citare Salvador Dalì, prototipo dell'artista eccentrico e affascinante, e così via.
Possiamo presumere che le donne che hanno frequentato o che si sono concesse a questi personaggi abbiano avuto in cambio la gratificazione di aver "conquistato" un mito: è un motivo di orgoglio, è un po' l'estremizzazione della soddisfazione, molto più banale, che si prova nel riuscire ad avere un autografo da un personaggio famoso.

Il contenuto del link a cui faccio riferimento in apertura di queste note, invece, inquadra una situazione oggettivamente del tutto diversa. Ammesso (e assolutamente non concesso, per adesso) che tutto quanto descritto corrisponda al vero, si tratterebbe molto più verosimilmente di un'altra forma di scambio, anch'essa vecchia come il mondo, un do ut des in cui i favori sessuali trovano il corrispettivo esclusivamente in utilità concrete e ben determinate: somme di denaro oppure attenzioni di altro tipo, ovvero regali, gioielli, agevolazioni per la carriera e quant'altro.
Ripeto, tutto questo non mi scandalizza affatto, anche se per me sarebbe facile, forse troppo facile, sottolineare quanto sia arido un rapporto, di qualsiasi tipo esso sia, in cui sai benissimo che ciò che viene apprezzato non è quello che sei ma quello che hai, il che vuol dire con la più assoluta e matematica certezza che, se tu non possedessi nessuna ricchezza materiale da dare, nessuno ti si filerebbe nemmeno di striscio.

Ma lasciamo perdere queste considerazioni e parliamo invece di alcuni presupposti che devono essere rigorosamente rispettati: il primo, ovviamente, è la serena e reciproca consapevolezza di ciò che si sta facendo, il che vuol dire che non deve esserci circuizione di alcun tipo da nessuna delle due parti. Insomma, libere scelte di persone adulte e consapevoli che decidono in piena coscienza cosa fare della propria vita.
Il secondo presupposto è il rispetto della legge: non deve esserci alcuna indebita pressione, ricatto o violenza da nessuna delle due parti, e i rapporti devono avvenire esclusivamente fra maggiorenni.

E' chiaro che stiamo parlando di dignità e di liceità. La prima, tutela l'onore della persona. La seconda, tutela l'onore della collettività.

Questi due presupposti, ovviamente, valgono per chiunque, ovvero sono condizione necessaria (anche se non sufficiente) perché io cittadino non debba sentirmi disturbato da simili comportamenti.

Ora forse qualcuno potrebbe chiedersi perché ho utilizzato l'espressione "necessaria ma non sufficiente".

L'ho fatto per un motivo molto semplice.

E il motivo consiste nel fatto che vi è una categoria di persone per cui oggettivamente vale un terzo presupposto, ovvero quello di evitare nella maniera più assoluta di mettere in pericolo, con il proprio comportamento, l'istituzione pubblica che si rappresenta o che si dirige.
In questo caso stiamo parlando di opportunità. E' opportuno (e lo dice anche la nostra Costituzione (1) all'art. 54 comma 2) che chi riveste una carica pubblica si comporti durante il suo mandato in modo da non mettere a rischio il bene della collettività: questo, tuttavia, è effettivamente un concetto estremamente generico in cui potrebbe rientrare tutto e il contrario di tutto. Dobbiamo quindi chiederci in cosa, realmente, un comportamento che non leda né la dignità propria o altrui e né la legge potrebbe risultare inopportuno.

Facciamo qualche esempio.

Un privato cittadino può liberamente adottare uno stile di vita al di sopra delle proprie possibilità economiche: tutto questo però lo porterà inevitabilmente a indebitarsi nei confronti di banche o altri soggetti, con il rischio concreto di vedersi a un certo punto pignorare ogni suo bene e ridursi addirittura sul lastrico. Questo potrebbe benissimo non ledere affatto la dignità della persona in questione se egli accetta la sua nuova situazione con la necessaria forza morale, e potrebbe non comportargli alcun problema con la legge se egli continua a rimanere nel solco del rispetto delle norme di covile convivenza.
Tuttavia, per esempio, possiamo certamente dire che, se lo stile di vita dissennato che egli ha adottato comporta difficoltà, imbarazzi o veri e propri problemi anche per la sua famiglia, il suo comportamento deve essere oggettivamente considerato come assolutamente non opportuno.
Egli, in altre parole, in questo caso non è un buon padre di famiglia.

Stesso discorso vale per l'imprenditore che dilapida in frivolezze o in scelte avventate il patrimonio della sua azienda: liberissimo anch'egli di ridursi sul lastrico come gli pare, ma se questo comporta disoccupazione e miseria per le famiglie dei suoi dipendenti, il suo comportamento non può essere certamente considerato opportuno.

Ma veniamo ora all'ambito della persona investito di una carica pubblica: anche qualora il suo comportamento - sia nella sfera istituzionale sia in quella privata - non comporti alcun elemento di indegnità o di illiceità, è purtroppo possibile che vi si possano riscontrare precisi elementi di inopportunità. Pensiamo per esempio alla possibilità che egli possa porsi in condizioni di poter essere ricattato: lo "scandalo Profumo", che coinvolse il ministro John Profumo e la modella Christine Keeler (notevole gnocca, a quanto pare) ne è una perfetta testimonianza:



In questo caso le conseguenze del comportamento di John Profumo (un comportamento che per un privato cittadino non avrebbe comportato nessuna ricaduta sulla collettività) furono talmente gravi da comportare addirittura la caduta del governo.

E' quindi evidente che risultano speciose e completamente destituite di fondamento le affermazioni di chi sostiene che ciascuno, in casa sua, può fare quello che vuole a condizioni che non violi la legge.

Nonnnonnonnonnò, cara la mia Daniela Garnero (in Santanché) e truppe cammellate al seguito.

Una persona come il presidente del Consiglio, cioè una delle più alte cariche della Repubblica, deve mantenere sempre, sia nella vita pubblica sia in quella privata, un comportamento non suscettibile di ipotesi di ricatto, 24 ore al giorno, 7 giorni la settimana, e 365 giorni all'anno (366 negli anni bisestili). E se non riesce a tenere sotto controllo il bigolo, ha il preciso divere di dimettersi, in modo da poter liberissimamente spendere la sua esistenza in tutte le attività lecitamente godereccie esistenti sulla faccia della terra, olgettine e improbabili nipotine (da parte di fava) incluse senza che nessuno possa avanzargli alcuna critica, per questo.

(1) Costituzione, art. 54.
Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi.
I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge.

lunedì 18 novembre 2013

Ma non è una cosa seria...

http://www.repubblica.it/politica/2013/11/16/news/scissione_forza_italia-ncd_chi_va_con_alfano_e_chi_no-71181479/

Gli organi di stampa hanno dato notizia che il partito del Popolo della Libertà si è formalmente scisso in due entità separate. Come sappiamo, Silvio Berlusconi ha deciso di azzerare il PdL e di ridare nuova linfa all'azione politica del centrodestra ritornando al nome e al simbolo di Forza Italia, formazione politica con cui era originariamente "sceso in campo" nei primi anni '90. Il suo delfino Angelino Alfano, invece, manifesta la propria contrarietà a questa scelta vedendoci un eccesso di estremismo che a suo dire potrebbe provocare pesanti conseguenze negative sulla stabilità dell'attuale quadro politico e quindi anche sui destini della nazione.

Ok, prendiamo atto anche noi della notizia. Tuttavia, il minimo sindacale di neuroni funzionanti ci porta istintivamente a portare la nostra attenzione sulla lista dei nomi che hanno preferito la linea di Alfano a quella di Berlusconi: non si tratta certamente di personaggi di secondo piano, al contrario, fra essi troviamo diversi berlusconiani della prima ora nonché una buona fetta dei vertici dell'appena defunto PdL. Citiamo a caso, l'ex presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni e l'ex presidente del Senato Renato Schifani, per non parlare di volti notissimi come Fabrizio Cicchitto, Maurizio Lupi, Nunzia De Girolamo, Beatrice Lorenzin, Giuseppe Quagliariello, Maurizio Sacconi e Carlo Giovanardi.

Ora, è certamente possibile che fra i massimi dirigenti di un partito possano nascere divergenze politiche (espressione che nel panorama italiano vuol dire quasi sempre "giochi di potere" o "posti alla mangiatoia"): questa non sarebbe né la prima né l'ultima volta. Ma arrivare a credere che tali divergenze possano portare non solo a frizioni interne ma addirittura all'abbandono del leader carismatico da parte di una buona parte dei fedeli storici... no, scusate, tutto questo è veramente difficile da digerire.

Tanto difficile da portarci a ritenere più verosimile e attendibile supporre che tutta questa manfrina possa essere soltanto fumo negli occhi. E' necessario ricordare che, se Silvio Berlusconi resta pur sempre il leader unico e indiscusso di quello che viene comunemente definito "centrodestra", appare del tutto priva di credibilità l'ipotesi che Alfano e i suoi seguaci possano intraprendere un percorso che comporti una vera e propria autonomia politica rispetto al capo carismatico. La figura di Silvio Berlusconi occupa ancora tutta l'area disponibile, non vi è spazio per altri, e se già la cosa è stata abbondantemente dimostrata nel recente passato, come del resto testimoniato dalla rapidissima sparizione politica di Fini e Casini che pure avevano una storia politica addirittura antecedente a quella di Berlusconi, lo è ancora di più oggi che i "dissidenti" del Nuovo Centrodestra sono tutti indistintamente personaggi che in politica sono nati o ci sono rimasti solo grazie a Silvio Berlusconi e non certo per propri meriti.

Insomma, Lupi e Alfano non sono certo De Gasperi e Adenauer, e se si sono distaccati dal percorso intrapreso da Forza Italia il motivo vero è uno solo: si tratta, per Silvio Berlusconi, di preparare il momento in cui staccherà la spina al governo Letta, determinando così la necessità di nuove elezioni. Tutto questo, nel presupposto che Silvio Berlusconi è e resta di fatto il manovratore, occulto o esplicito ma comunque unico e assoluto, di entrambe le formazioni politiche. Questo peraltro consente a Silvio Berlusconi di tenere sotto controllo sia l'ala "governativa" sia l'ala "estremista" del centrodestra, potendo quindi continuare a influenzare le scelte parlamentari in un senso o nell'altro.
Operazione che, si presume ragionevolmente, avrebbe anche una notevole valenza elettorale e di immagine, poiché consentirebbe a Silvio Berlusconi di acquisire consenso anche fra gli elettori che finora hanno votato per altre formazioni politiche di centrodestra: ovvero Scelta Civica e Lega Nord.

Quindi stiamo pure sereni: quella a cui stiamo assistendo è soltanto una enorme sceneggiata ad uso e consumo dei gonzi. Il Signore e Padrone resta sempre uno e uno solo.

venerdì 15 novembre 2013

Il Papa è nudo

http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/11/13/papa-francesco-il-pm-gratteri-la-sua-pulizia-preoccupa-la-mafia/776320/

Quando la grande capacità analitica di un magistrato di lungo corso incontra l'ampiezza pragmatica di vedute di uno storico, i risultati sono quasi sempre interessanti e a volte veramente straordinari.

Ma per quanto riguarda il contenuto dell'articolo non è peregrina l'associazione, fatte le opportune modifiche del caso, con la ben nota esclamazione della fiaba di Hans Christian Andersen. Che vi sia una lunga storia di rapporti e di collusioni fra l'istituzione ecclesiastica e l'onorata società, forse soltanto un ingenuo potrebbe ignorarlo anche se per ignorarlo bisogna essere veramente molto distratti, non foss'altro che per la famosissima scena di Don Abbondio, che se non dà l'idea della collusione volontaria e finalizzata a mire di potere o al mero lucro ci mostra comunque il tema, costante, della sottomissione e della remissione.



I Don Abbondio, quelli che "uno il coraggio non se lo può dare", sia chiaro, non sono e non possono essere considerati solo un'invenzione letteraria: se così fosse, l'accidiosa figura creata dal Manzoni non sarebbe diventata - e rimasta - un'icona della nostra cultura popolare. Ma nelle pieghe della storia d'Italia v'è ben altro, e non è difficile prendere atto di quanto i sentieri battuti dalla mafia siano troppo spesso stati oscuramente connessi con le vie del Signore.
Ma prima di analizzare in dettaglio queste commistioni, è utile sottolineare alcuni dati che ci forniscono una preliminare visione d'insieme della questione.

Mafia, camorra e 'ndrangheta, senza dubbio le più note fra le organizzazioni criminali segrete del pianeta, nascono nel XIX sec. in Sicilia, Campania e Calabria e la loro forza di coesione proveniva sia dalla debolezza delle istituzioni ufficiali sia dal rigore della disciplina interna all'organizzazione. Scelti con cura e sottoposti a un minuzioso rituale di iniziazione, i membri di queste onorate società prestavano un giuramento di obbedienza e fedeltà assoluta alla gerarchia e dovevano seguire un ben preciso codice d'onore.

Orbene, la genesi di queste organizzazioni criminali si fonda su presupposti non dissimili da quelli che hanno portato la Chiesa cattolica a nascere, crescere e svilupparsi così come la conosciamo al giorno d'oggi. La storiografia ufficiale ci parla di una Chiesa nata e sopravvissuta fra stragi e persecuzioni generalizzate e indiscriminate: tutto ciò è falso. In realtà le persecuzioni - che ci furono - non furono né continuative e né generalizzate, il che vuol dire che la sopravvivenza e la diffusione del verbo di Cristo e dei suoi discepoli furono favorite proprio dalla sostanziale indifferenza, o dall'incapacità di comprendere la portata dirompente del movimento, da parte delle alte sfere del potere temporale nell'età imperiale romana. Eziogenesi, questa, non molto dissimile da quella delle onorate società. Per certi versi sorprendentemente simile è anche il percorso seguito sia dai picciotti per essere ammessi nell'onorata società sia dai chierici per diventare preti: i riti di iniziazione mafiosa prevedono una serie di passi che mettono a dura prova la determinazione del candidato, esattamente come il percorso di crescita spirituale che porta il chierico a prendere i voti.

Altro evidente punto di contatto fra l'organizzazione ecclesiastica e quella delle mafie è la rigorosa gerarchia e la conseguente disciplina che da essa deriva: basti ricordare, a proposito della Chiesa, la spietatezza con cui, sin dai tempi di Ipazia d'Alessandria e proseguendo con l'oscura parabola del Sant'Uffizio, venivano sistematicamente perseguitati tutti coloro che non si uniformavano alla gerarchia e alla dottrina ufficiale: il concetto stesso di infallibilità del Pontefice ne è una dimostrazione evidente.
Parimenti, nell'onorata società, a ogni offesa e a ogni sgarro corrispondeva una punizione ben precisa che, a seconda dei casi, andava dallo "sfregio", rito camorrista compiuto sul viso di una donna infedele con un rasoio seghettato o con pezzi di vetro, al "taglio a'mpigna", riservato agli infami e ai traditori, sino all'incaprettamento, metodo utilizzato sino al XX secolo dalla mafia siciliana.

Peraltro, le onorate società hanno sempre tenuto in grande considerazione gli elementi mistici di derivazione religiosa: la camorra elesse come suo "santo protettore" nientemeno che San Pietro, la 'ndrangheta si affidò a San Michele Arcangelo e la mafia siciliana elesse come patrono addirittura Gesù Cristo. Questo non vuol dire che tutto ciò sia stato fatto con l'approvazione, esplicita o tacita, delle gerarchie ecclesiastiche, ma è comunque significativo constatare come le onorate società avessero ben compreso che il legare la propria immagine a un simbolo sacro avrebbe accresciuto di molto il proprio prestigio nei confronti delle masse popolari.

Ma la prima vera prova concreta della reale commistione fra il clero e una onorata società si può riscontrare nel primo documento ufficiale in cui si accenna, sia pure indirettamente, a quella che sarebbe poi diventata la mafia. Si tratta di un rapporto riservatissimo, risalente al 1838, nel quale il procuratore generale del distretto di Trapani, Pietro Ulloa, descriveva al ministro della giustizia del regno di Napoli, S.E. Parisio, lo stato dei rapporti fra le istituzioni e le realtà locali nell'isola:

" (...) Non vi è impiegato, in Sicilia, che non si sia prostrato al cenno di un prepotente o che non abbia pensato a tirar profitto dal suo ufficio. Questa generale corruzione ha fatto ricorrere il popolo a rimedi oltremodo strani o pericolosi. Vi ha, in molti paesi, delle specie di sette che diconsi partiti, senza riunione, senz'altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, lì è un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni, ora di far esonerare un funzionario, ora di acquistarlo (...) "

E per finire questa disamina di massima, è opportuno ricordare che il cardinale calabrese Fabrizio Ruffo (1744-1827), all'atto della formazione dell'armata sanfedista nota come Esercito della Santa Fede in Nostro Signore Gesù Cristo, non disdegnò di arruolare in quelle schiere anche diversi mafiosi e camorristi, fra cui spicca il nome di Nicola Gualtieri, detto "Panedigrano", brigante e ergastolano calabrese che ebbe modo di distinguersi nella guerra anglo-borbonica contro i francesi per la riconquista del regno di Napoli.

Ora, per chi avesse voglia di approfondire la questione degli intrecci e dei legami più o meno oscuri fra la Chiesa e le onorate società, quale miglior consiglio che suggerire la lettura di "Acqua santissima" di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso?


martedì 5 novembre 2013

The day after 4 novembre

Non me la sentivo di scrivere nulla, in verità, per celebrare o per ricordare in qualche modo la ricorrenza del 4 novembre, data in cui si concluse ufficialmente la I guerra mondiale con la vittoria dell'Italia e delle nazioni alleate contro gli Imperi Centrali. Per la cronaca, il contestuale completamento del processo di riunificazione del territorio italiano sotto un'unica bandiera è il motivo per cui tale ricorrenza venne ufficialmente denominata Giornata dell'Unità Nazionale.

Quello che invece non proprio tutti sanno è che il 4 novembre è anche la festa delle Forze Armate: la scelta di questo giorno, sia detto per inciso, era virtualmente inevitabile per oggettiva mancanza di alternative se osserviamo che sin dai tempi di Solferino e San Martino non vi sono altri momenti topici della nostra storia recente che possano essere considerati adatti a celebrare le nostre virtù militari, trattandosi per lo più di sconfitte a volte imbarazzanti: da Custoza a Lissa, da Adua a Caporetto, da Capo Matapan a El Alamein, dalla campagna di Russia a quella di Grecia, ritroviamo solo una lunga scia di sangue che, se non sminuisce affatto il valore e l'eroismo dei singoli ("Il soldato tedesco ha stupito il mondo, il soldato italiano ha stupito il soldato tedesco" disse Erwin Rommel, che era uno che un po' se ne intendeva), non depone certo a favore del prestigio della nazione in ambito bellico.
E se ne dovette accorgere pure Mussolini, che per ridare lustro e magnificenza a un comparto che il popolo poco amava e poco considerava non poté trovare di meglio che rispolverare l'iconografia dell'Antica Roma, dei suoi simboli e delle sue tradizioni.

Oggi comunque tutto questo non è più cronaca ma storia e non sarebbe una cattiva idea rivolgere la nostra attenzione a quello che è attualmente il nostro strumento militare e a come la politica lo utilizza.

Il frettoloso passaggio dalla leva al professionismo, conseguenza diretta della fine della Guerra Fredda, venne motivato con l'intento di spartire anche in Italia i cosiddetti "dividendi della pace", ovvero quegli ipotetici risparmi economici che le nazioni dell'est e dell'ovest avrebbero ottenuto dalla riduzione delle dimensioni dei rispettivi strumenti militari, riduzione resa possibile dalle mutate condizioni geopolitiche conseguenti al crollo dell'Unione Sovietica e alla dissoluzione del Patto di Varsavia. In realtà bastava poco per rendersi conto che dal passaggio leva/professionismo non sarebbe derivato alcun vantaggio per le casse dello Stato: tanto per fare un esempio, lo stipendio di un solo militare di carriera costa almeno quanto la paga di 30 militari di leva, e non mi risulta affatto che la riduzione del personale delle forze armate sia stata attuata nel rapporto di 30 a 1; c'è poi da tener presente che l'alta tecnologia costa, continua a costare sempre più, e costa ancor più se porta a produzioni di piccoli numeri su cui è impossibile fare economie di scala: vedasi per esempio i carri Ariete e i caccia Eurofighter.

Di tutto questo, ovviamente, una nazione in gravi difficoltà economiche come l'Italia non può non tener conto: lo strumento militare, così come qualsiasi altra branca della pubblica amministrazione, ha un senso se viene utilizzato al meglio e se produce i risultati previsti. Nel caso specifico, la funzione primaria delle forze armate è e resta pur sempre - Costituzione alla mano - quella di PROTEGGERE la nazione italiana e di TUTELARE i suoi interessi.
E' quindi necessario chiedersi se la trasformazione che attualmente stanno subendo le forze armate - trasformazione subdola, percepibile solo a chi ne capisce qualcosa e già in atto da diversi anni - è coerente con i presupposti di cui sopra: PROTEGGERE e TUTELARE.

Quello che voglio evidenziare è che lo strumento militare italiano, per una serie di ragioni essenzialmente politiche, non è più semplicemente una "forza di protezione" dei confini della nazione e dei cittadini italiani anche al di fuori di tali confini, ma si sta evolvendo in qualcos'altro, un qualcosa che per certi versi non è più sotto il diretto, esclusivo e assoluto controllo nazionale ma è chiamato a far parte di un sistema multinazionale e sovranazionale "di proiezione" al servizio di qualcosa di non ben definito, ovvero di ciò che in maniera estremamente generica si definiscono "gli interessi dell'Occidente", una definizione che è un calderone in cui si può mettere tutto e il contrario di tutto.

Insomma, chi comanda "veramente" i nostri militari, quando vengono chiamati a svolgere le più diverse missioni all'estero in zone lontane anche decine di migliaia di chilometri dai nostri confini? chi prende queste decisioni a livello politico? per quale motivo i nostri militari si trovano a combattere in Afghanistan? e perché abbiamo combattuto in Irak? quale tornaconto ne abbiamo nello spendere 200.000 €/anno per ogni militare mandato all'estero in zona di guerra, piuttosto che investire tali risorse economiche in altre e "forse" più impellenti urgenze all'interno dei nostri confini?

Cosa stiamo PROTEGGENDO?

Cosa stiamo TUTELANDO?

lunedì 4 novembre 2013

Piange il telefono...

Non posso esimermi dall'intervenire ancora sulla questione delle telefonate intercorse fra il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri, la famiglia Ligresti e gli organi dell'amministrazione carceraria, trattandosi di una questione che, anche a causa della mozione di sfiducia individuale promossa dalla delegazione del M5S nei confronti del ministro, ha assunto un rilevante carattere politico e ha provocato una interminabile serie di interventi e di prese di posizione da parte delle diverse parti politiche e del mondo dell'informazione.

Della incommensurabile idiozia costituita dalla tesi secondo la quale la vicenda Cancellieri sarebbe esattamente sovrapponibile a quella della telefonata di Berlusconi alla questura di Milano s'è già detto, ma evidentemente non abbastanza, visto che anche questa sera una incommensurabile cretina (quella del famoso tunnel, per intenderci) ha continuato - per evidente ordine di partito e a fini puramente propagandistici e strumentali - a sostenere esattamente questa posizione.

Ora, come al solito, quando ci si trova di fronte a una fesseria conclamata, non serve essere esperti in un determinato campo per smascherarla e sconfessarla: basta applicare il minimo sindacale di logica e di raziocinio. E nel caso specifico è sufficiente limitarsi a guardare i fatti così come sono ormai accertati.

Nella telefonata alla Questura di Milano, venne esplicitamente e insistentemente richiesto che la minore Karima El Mahroug venisse affidata a Nicole Minetti, contrariamente alle precise e inderogabili disposizioni emesse dal magistrato di turno, secondo il quale per quella notte la minore, la cui procedura di identificazione era peraltro ancora in corso, avrebbe dovuto essere ancora trattenuta in sicurezza nei locali della Questura e l'indomani immediatamente collocata in una struttura protetta. E per dare maggior peso alle suddette insistenti richieste di affido alla Minetti, da parte della presidenza del Consiglio venne sottolineato che la minore era "nipote di un importante capo di Stato mediorientale": la famosa balla spaziale della nipotina di Moubarak, come abbiamo sempre saputo. E chi ha fatto questa affermazione completamente falsa l'ha fatta sapendo senza dubbio di mentire: figuriamoci se lo staff della sicurezza di un personaggio come Silvio Berlusconi - staff composto sia dal personale dei servizi segreti messi a disposizione della presidenza del Consiglio sia da personale investigativo privato - non era in grado di conoscere in tempo reale vita morte e miracoli di ciascuna delle "gentili ospiti" delle ben note "cene eleganti" che avvenivano nella villa di Arcore.
Peraltro, il fatto stesso che Nicole Minetti, dopo aver ricevuto in affido Karima El Mahroug, se ne fosse a sua volta liberata alla velocità della luce passandola a una ben nota "signora perbene" brasiliana, al secolo Michelle Conceicao de Oliveira, dimostra di per sé che non vi era da parte della presidenza del Consiglio alcun motivo di preoccupazione in merito alla tutela della sicurezza della minore. In caso contrario, Nicole Minetti si sarebbe comportata ben diversamente.
Se ne deve quindi dedurre che la vera motivazione della telefonata per far uscire dalla Questura Karima El Mahroug non consisteva nella preoccupazione circa la possibilità di un incidente diplomatico con l'Egitto (ma quale incidente d'Egitto, direbbe a questo punto il grande Totò...) ma nell'urgenza disperata di evitare che la suddetta minore cominciasse a dare in escandescenze di fronte ai poliziotti e a spiattellare di essere amica di Silvio Berlusconi eccetera eccetera.
Altro fatto che contribuisce a rendere del tutto priva di credibilità (ammesso che ce ne sia bisogno) la tesi della nipotina di Moubarak è proprio il fatto che la telefonata ebbe come destinatari i funzionari della Questura e non - come sarebbe stato logico e corretto per motivi di oggettiva competenza - il pubblico ministero di turno, al quale, nel caso che effettivamente ricorresse il rischio dell'incidente diplomatico, ben si sarebbe potuta rappresentare formalmente la situazione in modo che egli potesse valutare, decidere al meglio cosa fare e successivamente dare le opportune disposizioni ai suoi subordinati, cioè al personale di polizia giudiziaria della questura.

E' chiaro, questo? o devo fare un disegno? spero di no...

Le telefonate intercorse fra il ministro Cancellieri e l'amministrazione penitenziaria, invece, mancano completamente di questi presupposti di interesse personale. Se dal punto di vista personale escludiamo l'amicizia - o comunque la cordialità dei rapporti - verso alcuni componenti della famiglia Ligresti, per la Cancellieri non vi era alcun motivo di dolersi del fatto che Giulia Ligresti potesse rimanere ancora in custodia cautelare in carcere, o mandata agli arresti domiciliari, o essere liberata.
E se nel caso di Karima El Mahroug l'essere nipote di Moubarak era solo una ridicola scusa che mascherava ben altro tipo di preoccupazione, nel caso di Giulia Ligresti sappiamo con certezza che la sopravvenuta precarietà delle sue condizioni di salute era un fatto talmente vero e dimostrato che di per sé ha costituito elemento sufficiente perché l'autorità competente decidesse per la sua scarcerazione. Decisione presa, peraltro, in assoluta e completa autonomia, esclusivamente sulla base della perizia medica sulla detenuta, non essendovi stato in merito alcun contatto con il ministro Cancellieri.

La vicenda di Annamaria Cancellieri e Giulia Ligresti, quindi, si inquadra in un ambito etico, giuridico, istituzionale e politico completamente diverso da quello della vicenda di Silvio Berlusconi e di Karima El Mahroug, checché ne dicano cialtroni, cretine e pitonesse da quattro soldi. L'unico (labile) punto di contatto consiste nel fatto che in entrambi i casi le telefonate furono senza dubbio fatte per motivi di carattere esclusivamente privato: nel caso della Cancellieri si tratta di un gesto di cortesia, nel caso di Berlusconi si tratta di interesse.

E se il caso della telefonata alla Questura di Milano può essere inquadrato nel momento istituzionalmente più basso, umiliante e vergognoso della cronaca politica di questi ultimi 20 anni (lo dimostra il fatto che persino il Parlamento si è fatto ridere in faccia da tutto il mondo quando approvò a maggioranza la tesi che Karima El Mahroug poteva efettivamente essere la nipote di Moubarak), il caso del ministro Cancellieri va valutato in una situazione di maggiore "normalità", ovvero una fattispecie che da sempre fa parte del gioco dei potenti: tutelarsi a vicenda ogni volta che è possibile, acquisendo in tal modo crediti che possono tornare utili in futuro oppure onorando debiti di riconoscenza precedentemente maturati. Non siamo ipocriti: è così e continuerà a essere così, ma sono questioni che restano pur sempre in ambito politico e non certamente giuridico.

Non che questo giustifichi in qualche modo l'operato del ministro Cancellieri, s'intende: le sue dimissioni sono e restano doverose.

sabato 2 novembre 2013

Figlie, figliastre e nipotine...

http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/11/01/cancellieri-santanche-non-si-dimetta-e-mandi-ispettori-a-milano/763449/

Dunque, secondo la persona non altrimenti qualificabile che come Daniela Garnero (già coniugata Santanché), il Ministro della Giustizia (sì, abbiamo detto proprio "giustizia") farebbe molto bene a mandare "gli ispettori" a Milano, al fine di "ispezionare" la Procura che si è permessa di avviare le indagini che hanno portato alla luce le indebite interferenze di una autorità istituzionalmente non competente (la presidenza del Consiglio dei ministri) in un procedimento di polizia giudiziaria in cui esistevano già precise e vincolanti disposizioni emanate dall'autorità (quella giudiziaria) che invece aveva piena e esclusiva competenza sulla fattispecie de qua, e in cui - proprio a causa di tali indebite interferenze - le suddette disposizioni sono state disattese invece che applicate.

Ora, basterebbe essere dotati del minimo sindacale di neuroni funzionanti per addivenire alla conclusione che, se un'autorità persegue un illecito essendo istituzionalmente investita del relativo compito, tale autorità non fa altro che svolgere la sua funzione, come è normale che sia in un paese normale. E di conseguenza, lungi dal doverla sottoporre a tragicomici provvedimenti di ispezione o a farseschi e improbabili tentativi di inquisizione, tale autorità dovrebbe semplicemente essere lasciata in pace nonché libera di continuare a fare il proprio dovere.

Ci si aspetterebbe, invece, che a essere perseguiti debbano essere non le istituzioni che hanno correttamente svolto la loro funzione, ma quelle che hanno indebitamente invaso un campo in cui non avevano alcuna competenza. Tutto qua. Niente di più, niente di meno.

Non è che ci voglia la zingara per comprendere questo semplice concetto, nevvero?

Ma la persona non altrimenti qualificabile che come Daniela Garnero (già coniugata Santanché) auspica e richiede l'esatto contrario, ovvero l'umiliazione e la persecuzione di chi svolge il proprio dovere, e tutto ciò al solo fine di continuare a proteggere un noto pregiudicato, ovvero quello dal "culo flaccido" (cit. Nicole Minetti) e dai tacchi molto alti (aggiungo io), che, pur essendo già stato penalmente condannato in via definitiva a quattro anni di reclusione e all'interdizione dai pubblici uffici, continua ancora ad ammorbare l'aria delle istituzioni invece di essere rinchiuso fra solide sbarre, come avverrebbe in un paese "normale".

Ho dimenticato qualcosa?